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giovedì, gennaio 29, 2015

Il pensiero manifestato

Come può manifestarsi il pensiero? E' un discorso complesso e di difficile condivisione quello della nascita e dello sviluppo del pensiero, attiene a questioni filosofiche, a Credo individuali, a conoscenze più o meno approfondite che possono generare discussioni accese. Non entrerò in merito a queste, non più di tanto, perlomeno. I frutti interiori dell'essere umano sono molteplici: fantasia, intuitività, idee, ingegno, volontà, e molti altri, che attengono a diverse possibilità e modi di impiego. Questi frutti però non sono il pensiero. Il pensiero umano, inteso anche come forza spitiruale, è qualcosa che sta sopra tutto ciò, che governa e crea. Mentre le idee, l'ingegno, la volontà ecc., lasciano perlopiù tracce della loro attività, il pensiero sembra essere distaccato e astratto. In realtà la manifestazione più evidente del pensiero risiede nella nostra attività più frequente, cioè la parola, che non per nulla viene citata come "principio" anche nelle Scritture. La parola, però, almeno come la conosciamo oggi, è una cosa estremamente sommaria, rozza, limitata, con, ovviamente, infinite sfumature, ma che certamente fa fatica a rappresentare la potenza di una conoscenza elevata come è, o dovrebbe essere, quella umana, indipendentemente da quanto sia evidente in un soggetto. Questo perché una manifestazione simile richiederebbe un'energia elevata, che nella quotidianità della vita risulterebbe uno spreco assurdo. Fin dall'antichità alcuni (pochissimi) soggetti furono investiti dalle comunità con "poteri" particolari; ad essi erano demandate le attività di colloquio con gli Enti superiori; potevano essere sommi sacerdoti, ma anche artisti, maghi, sapienti, dottori, ecc. Ciò che li contraddistingueva era la capacità di esercitare un potere particolare, una capacità, ma anche, e direi soprattutto, di utilizzare la parola. In questo senso si crede e si pensa che si tratti soltanto di "manipolare" le parole, cioè usarle in modo fascinoso, avvincente, come è stato per alcuni personaggi noti nel XX Secolo, ma in un lontano passato non era solo questo, ma anche un uso dinamico della voce. Da alcuni studi si apprende che nelle antiche religioni e nelle più antiche lingue, esistevano "potenze" vocali connesse alle parole stesse, al punto che alcune erano riservate ad iniziati in locali strettamente privati, in quanto la potenza espressa da quei termini poteva risultare fatale a soggetti impreparati. Naturalmente ci si può credere o meno; il fatto è che fin dalla notte dei tempi si è assegnata alla parola una potenzialità estrema. Come si possa recupare, almeno in parte questa caratteristica, non è facile neanche da ipotizzare, ma non si può non considerare che sia mediante una disciplina artistica che si possa elevare alla massima altezza la parola sostenuta da una melodia, che non per nulla fu assunta fin dagli albori dell'umanità come elemento distintivo di un potere speciale. Cos'è che conferisce, nella melodia, un potere speciale alla già elevata potenza del verbo? E' il sentimento; potrei dire il sentimento più positivo possibile, cioè l'amore, inteso come opposto a qualsivoglia sofferenza. In passato mi sono trovato a meravigliarmi che in situazioni dolorose, come la perdita di una persona cara, o in uno stato di malessere particolarmente profondo, mi venisse da cantare! Quasi mi veniva da vergognarmi e reprimere questo sfogo, come se il canto volesse esprimere una gioia o comunque una scarsa partecipazione al dolore. Bisogna rendersi conto che il canto non è sempre e solo espressione di una gioia esteriore, di leggerezza, ma, al contrario, è proprio vittoria del pensiero (ammantato dal sentimento d'amore) sul dolore fisico e morale, attinente alla vita contingente, caduca, temporale. La parola espressione del pensiero profondo è flusso nell'eternità, non ha tempo, come la grande Musica.

lunedì, gennaio 26, 2015

Il suono alimentante

Riprendendo discorsi già intrapresi più volte, preciso la catena che si realizza nell'emissione artistica. Il fiato è alimentazione del suono, quindi la sua funzione iniziale è quella di mettere in azione le corde vocali. Quando non sussiste più reazione istintiva il fiato richiesto è di quantità piuttosto modesta e non si ha più alcun senso di affaticamento, spinta, pressione, ecc. Tutto si concentra in una "postura" che si definiva, e possiamo ancora definire, "nobile", dove il punto chiave è rappresentato dalla "sostenutezza" del petto (che non c'entra niente col "sostenere" la voce, che fa a pugni col "galleggiamento"). In questa prima fase il fiato esaurisce (o esaurirebbe) la propria funzione sul limitare della rima glottica, cioè sulle corde vocali.
Al di là di questo limite noi non abbiamo più il fiato polmonare ma abbiamo il suono da esso generato. Questo suono è SOLO suono, cioè una vibrazione aerea. In sé, pur potendo già essere definito più o meno bello o brutto, è comunque un fenomeno alquanto modesto, persino rozzo (specie quando ingrossato da vibrazioni indebite - ma non sempre indesiderate!). Anche il suono ha (ripeto, nella emissione artistica esemplare, quindi diciamo meglio "dovrebbe avere") un limite, che è quello della bocca, quindi delle labbra. Entro questo limite, pur avendo già subito qualche modifica, nessun suono può ancora definirsi compiuto nella più alta elevazione sonora umana. Questa possibilità si può attuare SOLAMENTE oltre quel limite, quindi il suono diventa ALIMENTAZIONE della vocalità, ovvero di tutte le vocali che soltanto fuori possono accedere alla loro massima purezza e possibilità espressiva ed espansiva. Se mancano le condizioni, il suono resta suono, nella sua povertà e rozzezza, per quanto forte. Quindi la catena vocale artistica si rappresenta con la sequenza: fiato - suono - vocale (o vocalità).
Dalla fenomenologia celibidachiana apprendiamo che il suono non è musica, ma lo può diventare. Dunque c'è un'equazione molto intrigante: il suono esterno che viene percepito dall'uomo PUO' diventare musica entro la persona stessa SE ci sono determinate condizioni sia nella produzione dei suoni sia nella percezione; l'uomo produttore di suoni PUO' diventare cantante artista SE sarà in grado di sviluppare una vocalità che nasca e si proietti al di fuori di sé, non ingabbiata, frenata, ostacolata e manipolata da resistenze muscolari o mentali MA, attenzione, come la musica, grazie anche all'ARTICOLAZIONE. Questa è una necessità dell'uomo stesso. Non articolare significa impedire alla coscienza di funzionare, per cui l'idea di limitare o comunque non perfezionare l'uso della più ampia gamma vocale e sillabica è già in partenza un impedimento a qualunque futuro sviluppo.

mercoledì, gennaio 21, 2015

Le propriocezioni

Leggo e trascrivo questa definizione:

La propriocezione è la percezione che ogni essere umano ha del proprio corpo. Permette di sviluppare quella sensibilità che ci rende consapevoli  della posizione e della spazio che occupa un determinato muscolo. Quando si canta una moltitudini di muscoli viene messa in movimento.
Riuscire a “farsi un’idea”, “sentire” quei muscoli  che vengono coinvolti nel lavoro vocale e della loro posizione è tra le prime necessità di chi si approccia allo studio del canto.
Necessità? E per quale motivo sarebbe una necessità? Quando mai c'è una necessità di conoscere la posizione di un muscolo? A maggior ragione in un'arte come il canto, visto che esso è formato da aria e vibrazioni dell'aria stessa. Nel momento in cui io sono "consapevole" che emettendo un suono si mettono in moto determinati muscoli, che vantaggio posso trarne? Ma c'è ancora una domanda preliminare: siamo proprio sicuri di percepire correttamente? Cioè quando sento qualcosa in un determinato punto all'interno del nostro apparato respiratorio-fonatorio, sappiamo che muscolo si è attivato, e siamo proprio sicuri che sia quello e che sia esattamente lì? Non possiamo saperlo, perché i muscoli sono collegati tra loro e una sensazione provata in un punto non significa con sicurezza che un determinato impulso abbia origine o abbia una qualche influenza lì; potrebbe essere partito altrove ma darmi una percezione "lì", perché lì avviene qualcosa che è più rilevante o perché quel punto è particolarmente sensibile. La sensibilità interna è piuttosto differente da individuo a individuo. Come già scrissi in passato, ci sono persone che bevono e mangiano a temperature vulcaniche e altri che non sopportano nemmeno cibi tiepidi, e questo è in rapporto con la sensibilità delle terminazioni nervose; ci sono persone che percepiscono le vibrazioni del suono in alcune zone della bocca, altre molto meno e persino poco o niente. Questo è anche un motivo per cui insegnare canto mediante le sensazioni è sbagliato! Il motivo più importante per dire che "farsi un'idea dei muscoli che vengono coinvolti nel canto" porta a gravi difetti e a un'insegnamento erroneo del canto, sta nel fatto che se io sto dietro a quella sensazione, frenerò il flusso sonoro, il fiato, cercherò, inconsapevolmente, di posizionare il suono là dove provo la sensazione. Vuol dire bloccare il canto, mettere una sorta di "pinza" al mio faringe, alla laringe o altro luogo interno. Il canto esemplare significa raggiungere l'obiettivo di eliminare le propriocezioni! Il canto esteriorizzato mi fa provare solo la percezione della mia voce nell'ambiente esterno, tramite le orecchie! Tutt'al più un leggero formicolio sul palato anteriore, da non considerare importante, da non cercare, però, da non seguire e non considerare come qualcosa di fondamentale e indispensabile, perché rischia subito di portarci indietro, in una regione interna, quindi nuovamente frenare il flusso, impedire la piena libertà e il costante e regolare decorso del suono, come fosse il fiato stesso. Naturalmente per moltissimo tempo l'allievo avrà propriocezioni, anche il maestro le sentirà "per simpatia" e darà suggerimenti e indicazioni affinché si possano superare, perché non si radichino, e dovrà sudare per trovare le strategie per togliere quelle già fissate da idee proprie o indotte da studi precedenti.
La propriocezione, però, rappresenta anche un ostacolo importante alla disciplina artistica. Quando l'allievo inizia lo studio del canto e l'insegnante invece di partire da dove la Natura già ci ha portato, cioè dal parlato, pensa di partire da zero su tutta un'altra strada, muscoli, cartilagini, legamenti, ecc., rappresenteranno un punto di appoggio importante sia per le reazioni biologiche che il corpo metterà in essere quando si sentirà "minacciato" da un'attività che egli avvertirà come forzata e provocatoria, sia per l'allievo stesso che non saprà come guidare la propria voce in un modo diverso da quello quotidiano. Quindi le stonature, le difformità rispetto alle richieste dell'insegnante, con cosa si potranno guidare e modificare? Con la gola e i muscoli in genere. Questi, pertanto, rappresenteranno la sicurezza, il terreno solido su cui puntare per guidare il proprio canto. Naturalmente pessimo!! Se questi allievi (e sono la quasi totalità) trovano certezza in questa dimensione materiale, cosa capiterà quando un insegnante più elevato cercherà di svellere la vocalità dalle àncore, dagli artigli, dalle resistenze e attriti della muscolatura? Che l'allievo si sentirà come un novellino che ha sempre nuotato in 30 cm d'acqua, contando quindi sul fondale appena sotto di sé, buttato in mezzo a un'oceano! La totale perdita di sicurezza, di appigli, di guide, quindi la paura!. Se il canto sul fiato è quello che ha questo nome, solo su di esso si può contare, ma togliere i muscoli vuol anche dire far galleggiare una grande massa su un tappeto d'aria. Immaginate quale energia necessita? E questa occorre sviluppare. Punto. 

lunedì, gennaio 19, 2015

Veder respirare

"Sarà capitato anche a voi..." - cantava Raffaella Carrà in un celebre motivetto all'inizio della sua carriera - che qualcuno dicesse: "hai visto il tal cantante come respira?" ma a volte anche fuori dal canto "hai visto come respirano i bambini?"; "...come respira quell'attore", "quel ginnasta"... e via dicendo. Quindi per molti la respirazione è un qualcosa da vedere. Ma cosa volete vedere? Intanto, per la brevità dell'azione, si vede solo l'inspirazione, mentre è più difficile seguire la fase dell'emissione che dura molti secondi. In secondo luogo si vede quel che si vede, cioè macromovimenti, perché i vestiti non consentono di vedere gli eventuali micromovimenti, che potranno essere comunque importanti; in terzo luogo: ma siamo proprio sicuri che rivestano tutta questa importanza i movimenti esterni? E, nel caso, siamo dell'opinione che imitando la postura respiratoria di qualcuno che reputiamo sia corretto, ne avremo un vantaggio? Io dico di no! Intanto spesso la respirazione altrui va ascoltata; se sentite "rumori" (naso o gola) è già da considerare che il soggetto inspira male. Sono dell'opinione che se un atto inspiratorio si vede, è perché ha qualcosa di eccessivo, di costruito, non assimilato, non integrato nel processo vocale. Ciò che di buono si può vedere nei buoni e bravi cantanti è la serenità, l'armoniosità del volto e la disinvoltura dei movimenti in scena, non "ingessati" da problematiche canore.

domenica, gennaio 18, 2015

Il gesto vocale

In arte si parla di gesto, più precisamente di SUBLIMAZIONE DEL GESTO, cioè passaggio da uno stato materiale a uno sublime, appunto, quindi aereo, spirituale, puramente del pensiero. Se nelle arti visuali questo gesto può essere abbastanza chiaro, il segno grafico, nel canto lo è molto meno. Per quanto ci riguarda, bisogna dire che c'è un pensiero coerente, quindi quanto dirò risponde a tutto quanto è presente nella poetica e nella pratica del canto artistico espressa negli scritti e in quanto tutti coloro che si ritrovano in questa linea praticano e divulgano. Se diciamo che il canto altro non è che uno sviluppo straordinario della parola elevata a canto, che per potersi elevare necessita di un'arte respiratoria adeguata, il gesto vocale perfetto consiste nell'emissione di un attacco puro di una vocale (o sillaba) che nasca sonora, chiara e ricca nell'ambiente circostante, quindi fuori dal corpo, partendo poco avanti la bocca e diffondendosi rapidamente sia nel caso di un'unica vocale che più vocali o frasi cantate. Questo si sposa anche con importanti aspetti musicali. E' piuttosto comune che chi canta o vocalizza si soffermi sulla prima nota o sillaba e proceda magari "a scalini", cioè sottolineando le singole note e/o sillabe di cui è composta la frase. E' fondamentale concentrarsi sull'unitarietà di una frase, e poi di una sezione fino a mettere insieme l'intero brano. In questo senso si possono dare alcuni utili consigli. Prendiamo una frase, composta da poche note che inizi e finisca sulla stessa nota e sulla stessa vocale. Si metta a punto la prima e la si riesegua quasi subito come ultima, verificando che siano assolutamente uguali; quando ciò avverrà, si rifaccia la prima nota, sempre impeccabilmente, quindi si faccia una pausa istantanea in cui si immaginano le note centrali (più rapide, per non distrarsi) e si ricanti la nota ultima ovviamente con la consapevolezza di risultare identica alla prima. Dopo qualche prova, si rifaccia l'esercizio questa volta cantando anche le note centrali ma velocissimamente e quasi sorvolate, sempre badando a che l'ultima nota sia identica alla prima. Se tutto funziona si potranno cantare tutte le note della frase che a questo punto saranno unite nel pensiero, giacché la fine è contenuta nell'inizio e questo dovrebbe permettere anche la corretta esecuzione. Inserisco l'esempio scritto:


Naturalmente non intendo che le note centrali non siano importanti e non vadano eseguite perfettamente; lo scopo dell'esercizio è quello di non insistere in modo frazionato sulle singole note, perché verrà sempre a mancare un vero legato e saremo lontani dall'unità. Tornando all'argomento, un esercizio come questo è la base di un gesto vocale; poi lo diventerà una frase cantata e così via. Ma sottinteso ci sarà anche un altro elemento fondamentale, cioè il consumo d'aria! Questa come tutte le altri frasi dovranno essere eseguite come un alito sonoro, un'arcata unica, senza risparmi, senza trattenimenti e ostacoli; dovrà corrispondere a un fondamentale obiettivo di LIBERTA' vocale. Si deve cominciare da "piccoli mattoni" (che però non sono le note!), che alla fine costituiranno la grande casa della musica.

PS: ho inserito una "o" per ogni nota anche se la grafia più corretta sarebbe una sola "o" all'inizio della frase con trattini sotto ogni nota. Però è bene ricordare che seppur non rimarcando, ogni cambio di nota richiede una ri-pronuncia, non accentata, non premuta o imposta con accenti, spinte o colpi di qualsivoglia genere, ma pensata.

giovedì, gennaio 15, 2015

Il trattato - respirazione - 14

Proseguiamo nella pubblicazione "a rate" del trattato del m° Antonietti; siamo al cap. II: respirazione.
E’ vero che col metodo dell'Antica Scuola Italiana, giustamente inteso, si ottengono migliori risultati con minor dispendio di forze, perché questo risultato consente un completo dominio sul principio di ogni atto respiratorio che non ha e non può avere un oltre, così come è vero che il contrasto tra il Mackenzie e il Mandl è a favore del primo, perché Mandl sosteneva la respirazione diaframmatica come unica, migliore ed insostituibile in contrasto con quella della Antica Scuola Italiana. Ma questa inconciliabilità è dovuta ad una non approfondita analisi delle due tesi, perché la ragione sta da entrambe le parti. E tralasciando il non felice consiglio del Mackenzie di studiare attirando la parete addominale anteriore leggermente in dentro, intesa a filo delle semicoste e non come depressione dello stomaco, la felice conclusione che con il metodo della Antica Scuola italiana si ottiene un miglior risultato con un minor dispendio di forze e l'ostinata convinzione di Mandl che la respirazione principe, migliore e indiscutibile, è quella diaframmatica, la verità di entrambi sta nel fatto che se la respirazione non viene trasformata in Arte, il canto e tutti i consigli che si possono dare in questo senso non possono che generare grande confusione. Ed è ciò che è avvenuto e che ancora avviene in tutte le scuole di canto. 
In questo brano forse è saltato un periodo in fase di stampa: la ragione di entrambi sta nel fatto che l'una è l'integrazione dell'altra. Sul concetto si tornerà più avanti.

Se non si conquista l'arte della respirazione e se l'allievo, anche in possesso di una bella e potente voce, non la educa secondo i canoni e le norme che regolano e conducono alla conquista dell'arte della respirazione, rendendosene pienamente cosciente, cioè padrone assoluto della respirazione atta al Bel Canto, non potrà mai - ripetiamo MAI - far sì che i doni naturali, per quanto eccellenti, possano produrre gli effetti da noi auspicati, perché si produrrà sempre un canto che si può dire pressoché sgradevole. Nella migliore delle ipotesi ci si troverebbe sempre di fronte ad un canto che non potrà mai considerarsi esemplare, perché se per esemplare intendiamo una certa gradualità tecnica propria di un organo più o meno felicemente dotato, noi non avremo che un tentativo di imitazione, che non può che portare a risultati mediocri. 
Non c'è molto da commentare, salvo far rimarcare che con arte della respirazione si intende una condizione respiratoria che ben poco ha da spartire con quella fisiologica quotidiana. E' un processo di sviluppo lento e straordinario, legato strettamente alla vocalità, quindi da non intendersi staccato, indipendente da questa.

Escludiamo nella maniera più assoluta che i foniatri siano degli artisti e che conoscano il metodo che conduce a quell'Arte che loro non possono conoscere. Noi siamo dell'avviso che nessuno potrà mai insegnare ciò che egli stesso non sa fare.
due concetti, non necessariamente concomitanti in un solo soggetto: chi non sa fare - in questo caso cantare - non può insegnare; una conoscenza scientifica degli apparati preposti alla fonazione non sminuisce la portata di quell'affermazione, quindi anche i foniatri, o comunque esperti nella anatomia e fisiologia, dovrebbero astenersi non solo dall'insegnare, ma anche semplicemente dare consigli sul canto.

martedì, gennaio 13, 2015

L'unità del sapere

Uno dei principi su cui si dovrebbe (ma nell'ordinamento non c'è il condizionale) basare l'insegnamento nella scuola pubblica italiana, è quello che riconduce all'unità del sapere. Vale a dire che lo spezzettamento che si effettua ovunque e in ogni modo tra le varie discipline è la condanna di ogni retto e sensato apprendimento. Ma non è l'unico punto debole della scuola (non solo italiana). Quale tipo di metodologia si applica? Non sto a entrare nel merito più specifico di come l'insegnante svolge la lezione (qui generalmente dovremmo parlare di metodologie riconducibili a epoche comprese tra il paleozoico e l'alto medio-evo!!) ma di un approccio complessivo: il metodo scientifico, e perlomeno un metodo inteso come scientifico, cioè di tipo oggettivo, concettuale, rappresentativo. Questo metodo ha un grave difetto, se inteso nella sua accezione più corrente, e cioè non solo è isolato e distaccato da altre discipline, ma spezzetta e isola elementi all'interno della sua stessa materia. Per esempio la scienza ben poco avrà a che spartire con la geografia, tanto per dire o con l'educazione artistica (anche se ognuno di noi con un minimo sforzo del pensiero, di collegamenti ne potrà trovare numerosi), ma isola, categorizza e separa la botanica dallo studio del corpo umano, la fisica dalla chimica e così via. Ma si può andare ancora oltre; nello studio, per esempio, del corpo umano, si parla di apparato digerente e apparato nervoso, di arti, sangue e muscoli. Ognuno di questi oggetti (proprio così) viene scandagliato in profondità, ma ben difficilmente viene messo in relazione con il resto, e con tutto. E' un tipo di indagine sicuramente molto razionale, solitamente molto noiosa, che accontenta i soggetti con ottima memoria, perché possono ricordare facilmente regole, concetti, norme, senza coinvolgere la sfera emotiva. E già, perché ciò che solitamente rimane fuori è proprio questa! (che, tra l'altro, molto difficilmente sarà presa in considerazione dalla scienza stessa, se non in corsi specifici). In ogni tipo di studio di base, quindi scuole dalla materna alle superiori, perlomeno, ma anche nella maggior parte delle università, comprese quelle di tipo musicale o più generalmente artistico, la sfera delle emozioni, delle empatie, viene lasciata fuori dalla porta, forse perché ritenuta "ingombrante", provocante, fastidiosa. E' certamente molto più semplice e consuetudinario spiegare come è fatta una cellula o come si calcola un'area, che coinvolgere l'emotività di un gruppo di bambini/ragazzi alla ricerca delle cose importanti della vita, entro le quali rientreranno senz'altro la geometria e la chimica, ma che se sapute stimolare diventeranno richieste da parte loro, e non imposizioni che nella maggior parte dei casi saranno ritenute inutili e noiose. Questo blog tratta di canto, ma come ognuno che frequenta, o che avrà voglia di leggere, potrà constatare, pur parlando di canto in questi oltre 600 post ho spaziato in lungo e in largo nell'ambito della conoscenza. Infatti la questione non è trovare i punti comuni tra i contenuti delle materie (cioè stabilire, come si fa agli esami di terza media, solitamente orribili! qualche cosa in comune tra la seconda guerra mondiale - storia - , la geografia, le scienze, la letteratura, la musica, ecc.) ma correlazionare gli aspetti comuni ai fondamenti disciplinari, cioè perché l'uomo indaga il passato, cosa può imparare da determinati avvenimenti, come ciascuno di noi può leggere e da un contenuto introverso - il passato - farne un motivo di estroversione, cioè un comportamento, un compito, ecc.; perché viaggia, perché legge, ecc. ecc., ovvero da ciascun "perché" farne prima di tutto un processo di tipo emotivo e quindi creativo, infatti ciascuna disciplina dovrebbe contemplare (ma non sempre è così) sia un aspetto di indagine - che coinvolga o possa coinvolgere ciascuno - che uno di creazione. Spesso si sente parlare di "emozioni" nel sentire un brano musicale o nel leggere una poesia o un racconto. Ma quando e come si estroverte questo apprendimento, se lo si limita al solo ascolto, cioè alla fase passiva?
Dunque, di conoscenza qui si parla, non intesa come nozioni e informazioni più o meno specifiche, ma conoscenza profonda, pensiero, che quindi noi tutti abbiamo o siamo in grado di sviluppare se stimolati opportunamente.
Veniamo, o torniamo, al canto. Si può parlare di canto senza considerare la sfera emotiva? No, chiunque studi canto, o semplicemente canti, quindi praticamente tutti, lo fa - più o meno consapevolmente - per estrovertire la propria sfera sentimentale ed emotiva più profonda. Questa sfera però non si limita a partecipare, ma induce e coinvolge anche fisicamente le numerose azioni del cantare. La semplice nostra voce parlata si modifica non solo leggermente quando la persona deve dire qualcosa a qualcuno in particolare, in una certa situazione, in un certo ambiente, quando sono coinvolti i suoi sensi, quando è impaurito, innamorato, felice, triste... Una recitazione o un canto professionale non possono soggiacere alle intemperanze emotive, per cui il professionista deve riuscire a dominare gli aspetti istintivi, ma allo stesso tempo deve riuscire a riprodurli realisticamente per far sì che chi ascolta sia coinvolto da quella stessa emozione, il che si chiama empatia. Anche l'insegnante di canto si trova in una situazione analoga. Perché canta, perché insegna canto? Ma non è tanto la risposta concettuale e oggettiva che conta, ma la risposta interiore, anche silenziosa, quella che comunica facendo, arrabbiandosi, insistendo, facendo andare l'allievo oltre la linea dell'immaginazione, che è la vera sfera dell'apprendimento, quando la mente può prendere atto di qualcosa di nuovo, di non previsto, ma che esiste in profondità, e che ora emerge e può esprimersi e svilupparsi. Detto questo, si può pensare che ci sia un confronto, una contrapposizione tra un "metodo" artistico e un metodo scientifico? No, diamo per scontato che il metodo scientifico ha un tipo di approccio non unitario, diviso, analitico, oggettivo quindi asettico e non coinvolgente, ma comunque importante, necessario, che dovrà necessariamente allargarsi, ampliarsi in una visuale che il canto necessariamente dovrà estendere a una sfera artistica, che, al contrario, non può che rifarsi all'unità, alle relazioni, al dentro e al fuori sempre in un rapporto di energia sottile, non fisica e brutale, non di massa e di peso, ma di volontà e di desiderio, non contigente, ma eterno.

lunedì, gennaio 12, 2015

De Negri

Il grande tenore piemontese Giovanni Battista De Negri fu un importante cantante a cavallo tra XIX e XX secolo. Ci raccontano i dotti vociologi che fu in contrapposizione con Tamagno, da cui la linea "chiara" che proseguì con Lauri Volpi giù giù fino a Pavarotti (???), perché rappresentò l'Otello "scuro" (di voce, ovviamente), da cui si staccò la linea che portò fino a Del Monaco e Domingo. Ascoltate un po' questa registrazione, e ditemi dove starebbe lo scuro. Dizione impeccabile e chiara. Il timbro è, forse, meno squillante e argentino rispetto a Tamagno, ma non c'è nulla di artefatto e "gonfiato".


domenica, gennaio 11, 2015

Il pensiero e la visione

La tecnica, soprattutto se "normata" da una base di tipo unicamente scientifico può "uccidere" il canto. Non così la perfezione, ovvero la disciplina (percorso) che porta a quella verità. Frequentemente trovo persone che prendono le distanze da verità e perfezione in quanto, secondo le loro povere informazioni e stimoli, ucciderebbero l'arte e annoierebbero. Niente affatto; l'ho già spiegato e detto innumerevoli volte e non starò a ribadirlo ora. Questa triste fine invece può toccare seguendo criteri esclusivamente razionali basati su osservazioni anatomiche e fisiologiche che non considerino il pensiero e soprattutto le relazioni tra il pensiero e il gesto concreto finale. Le tecniche del canto delle più vecchie scuole, quindi non scientifiche, si basavano più che altro sull'ascolto e su una crescita costante. Come in quasi tutte le attività umane si riteneva che l'apprendimento più efficace si ottenesse con esercizi quotidiani che iniziassero da quelli molto semplici ai più complessi in un arco di tempo piuttosto ampio, con differenziazioni soggettive non eccessive. La cosiddetta bottega, insomma. Ma sappiamo anche che sono sempre esistite scuole legate a un pensiero più universale, più esteso alla conoscenza umana e non solo legata alla singola e peculiare attività che si va ad apprendere. Questa si rivela l'unica possibile strada per il raggiungimento di un traguardo artistico elevato, e sfociando nella autentica libertà, non corre il rischio di "normare" cioè di ingabbiare l'esecuzione in regole e in atti da pensare preliminarmente. Semmai ogni tipo di tecniche, con gradualità specifiche, si situerà sempre in condizioni limitative: "dove c'è il passaggio occorre oscurare"; "per un suono efficace occorre sollevare il velopendolo"; "per una corretta respirazione è necessario gonfiare l'addome"; "tenere il suono alto, in maschera"... insomma quel torbido vocabolario di sciocchezze che ha avvelenato il canto e l'arte del canto in generale. Un po' di ribellione ci vorrebbe anche qui, come nella vita, che con il modello di società che abbiamo scelto sta portando alla deriva, soprattutto a causa di pochi che hanno saputo abilmente sfruttare la situazione. Ci sono anche nel mondo del canto e della musica, e andrebbero smascherati.
Potremmo anche parlare di piccola e grande "visione" del campo artistico che ci compete. Basta in fondo riflettere anche poco per comprendere quanto sia ristretta quella visione del canto che si basa su movimenti muscolari e cartilaginei o su spazi interni di poco conto, che in realtà non fanno che OSTACOLARE il flusso del grande canto, e quanto possa invece essere spaziosa, ampia, fresca, la grande visione di un canto che parta da come funzioniamo (non in senso anatomico), da quali leggi siamo regolati e quindi come possiamo liberarci da quelle che ostacolano la libertà del pensiero/azione, con i giusti criteri che non vadano in concorrenza e in opposizione.

venerdì, gennaio 09, 2015

"... il linguaggio dell'amor."

In "vaga luna" di Bellini, il protagonista chiede alla luna di inspirare agli elementi il linguaggio dell'amore. E' cosa che dovremmo imparare a far tutti. Il linguaggio dovrebbe accomunare e creare legami e condivisioni, invece è più quel che divide e crea conflitti.
Quante volte abbiamo sentito affermazioni del tipo "il mio maestro dice di parlare a bassa voce se no mi rovino la voce"; oppure "il mio insegnante dice che non devo fare note di petto - o di falsetto - se no mi rovino la voce". Di questo passo potrei scrivere una Treccani, ma penso anche molti di coloro che leggono. E' ignoranza? E' superficialità? E' pressapochismo? Malafede? Può darsi, ma non voglio emettere giudizi. L'analisi e qualche studio interessante mi hanno portato a considerare che certo tipo di linguaggio non è solo frutto di aspetti negativi, ma soprattutto di scarsa consapevolezza e quindi di un coinvolgimento in una sfera sociale che tende a creare categorie e dualismi. Il dualismo e le categorie, in sostanza, quali sono? Chi esercita (o vorrebbe esercitare) il potere e chi lo subisce. Il potere dovrebbe essere esercitato nella prospettiva di un bene comune; non starò a commentare, non è tra gli scopi di questo blog. Però anche chi insegna, in ogni ruolo, si sente investito da un potere e lo esercita. Il modo per esercitare il potere passa attraverso il linguaggio. Ipse dixit! l'ha detto lui! Se l'insegnante si rende conto che può dire qualunque cosa e che viene "bevuta", è finita. Detiene il potere. Se qualcuno fa troppe domande, mette dei se e dei però, è un "cattivo allievo", è un ribelle, non ascolta, non segue le regole, lo si può anche cacciare o comunque mettere in "malavista", come dice Basilio. Come mi e ci hanno insegnato i veri maestri, l'apprendimento passa attraverso le domande! Mettere in discussione le affermazioni di un insegnante non è una mancanza di rispetto (ovvio che va fatto nei modi corretti), ma denota una volontà di imparare e di non avere "buchi". Dunque, senza un atteggiamento contestativo, senza arroganza, pretese e provocazioni ma anzi con una volontà positiva e pacifica, fate sempre domande! Bisogna anche un po' pensarci e prepararsele; lo so che non è facile, anche per questo ci vuole un po' di impegno e di volontà, ma fatelo! Non date per scontato che quanto vedete scritto dai cosiddetti maestri o quanto vi dicono sia verità (magari dicono pure: diffidate da chi vi parla di verità). Certo, può darsi, ma ciò che loro propinano non è esposta con lo stesso criterio? Allora la differenza è solo nel pronunciare la parola verità, ma poi nei contenuti si tende egualmente ad affermare delle verità, solo che si può avere il coraggio di dirlo oppure farne strumento di opposizione (e rieccoci al linguaggio del potere, in questo caso utilizzato per smontare le argomentazioni di chi si oppone a un potere che travalica i propri limiti a fini personalistici).

lunedì, gennaio 05, 2015

Dei particolari

Non v'è dubbio che un'arte complessa come il canto coinvolge veramente una quantità considerevole di fattori. Quando si va ad eseguire un brano è abbastanza fatale che chiunque abbia un po' di esperienza e competenza abbia da ridire su qualcosa: quella nota stonata, quella pronuncia falsa, quella vocale indietro, quel passaggio di registro troppo evidente, ecc. ecc. ecc. Questo a livello esecutivo; ed è un bene che si colgano i punti deboli, perché costituisce il piano di apprendimento, si "sturano" le orecchie e soprattutto si sviluppa la coscienza. In ogni caso, al termine di un'esecuzione deve essere la VISIONE D'INSIEME quella che produce la valutazione interiore più importante. Perché questa possa essere positiva, è piuttosto necessario che una visione d'insieme o unitaria sia presente in chi la produce, e perché ciò avvenga è quasi del tutto scontato che sia posseduta da chi insegna. Fin dall'inizio dell'insegnamento è necessario tener presente il maggior numero di criteri possibili, ovvero mantenere il processo canoro in una visione unitaria. Per l'allievo sarà del tutto impossibile, ma non è così fondamentale, non si può sperare in un risultato così elevato nell'arco di poco tempo, ma questo deve essere comunque lo stimolo e l'obiettivo del maestro. Quando le questioni macroscopiche saranno superate, si comincerà a lavorare sui particolari. Attenzione però! Quando mi riferisco alla cura dei particolari non mi riferisco a una correzione di questi fini a sé stessi, ma SEMPRE (SEMPRE) in una visione globale, complessiva e unitaria. Lo scopo della correzione deve comportare l'elevamento dell'insieme. Ricordo di aver ascoltato una prova di un cantante con un pianista che riteneva di poter dir cose anche di vocalità; fermava di continuo il cantante individuando una nota meno intonata, una parola poco espressiva, ecc. Dai e ridai giunse a una esecuzione che riteneva buona. In realtà era peggiore di quella iniziale. E' vero che c'erano note calanti e parole poco contestualizzate, ma il cantante aveva una sua omogeneità complessiva e alla fine, pur dilettantisticamente, poteva essere accettabile. L'esecuzione finale secundum il pianista, invece, risultava la somma di tanti pezzettini che forse singolarmente potevano essere più corretti (ma in realtà sempre forzati, imposti, evidenti), ma nell'insieme distruggevano ogni unitarietà. Questo è anche motivo per un'altra annotazione. Il buon insegnante si sofferma molto e insiste sulle prime note e parole di un brano o di un esercizio. Non è una questione di particolari! Non si dimentichi il precetto fenomenologico "la fine è contenuta nell'inizio". Il cantante artista non canta un certo numero di sillabe, di note e parole, non c'è piano, forte, pianissimo e fortissimo, c'è UN brano, il quale, per essere UNO, necessita di una relazione continua tra l'inizio, il punto in cui si è, il punto massimo e il finale. Quando si inizia occorre tener presente 'dove si sta andando' e passando per dove, come una mappa. Se abbiamo presente il punto massimo, dovrò partire in un certo modo per dare rilievo a quello, se so che c'è un punto di minima intensità, dovrò partire in un certo modo per far sì che quel punto emerga, dovrò fare in modo che il finale sia la conseguenza di quella partenza e di quei punti significativi (ma naturalmente ogni punto è significativo, perché è sempre consequenziale e predittivo). Il m° Celibidache spiega, con la sua incredibile capacità sintetica, di non fare 2+2+2+ ecc. ma 2 elevato a... cioè far sviluppare dal "seme" iniziale di ogni brano, quella potenza INTERNA che farà nascere l'intero brano. Come si può essere più chiari ed efficaci di così?

Roberto d'Alessio

Altro esempio di grande valore. Il tenore siciliano Roberto d'Alessio in una delle pagine più acute e impegnative del repertorio tenorile, "mi par d'udire ancora". La esegue solo mezzo tono sotto l'originale (considerate che veniva cantata anche un tono e mezzo e persino due toni sotto) con facilità e buon gusto.

sabato, gennaio 03, 2015

Minghetti

Vi posterò da oggi alcuni esempi interessanti; il tenore Angelo Minghetti intorno agli anni 30 cantava nei maggiori teatri ed era considerato alla stregua di Lauri Volpi e Pertile. In questa "gelida manina" è interessante notare con quale semplicità fraseggia e pone il canto, senza pomposità, senza gonfiamenti e inutili timbrature. Non è perfetto, ci sono alcune pecche sia sul lato testuale che vocale, ma io vorrei ce ne fossero alcune dozzine di tenori così!!

giovedì, gennaio 01, 2015

Principio del minimo stimolo

Uno dei principi base della nostra scuola è che il canto esemplare non necessita di forza, e anche gli impulsi che sono ritenuti necessari, razionalmente pensando, devono essere talmente lievi da risultare quasi inconcepibili. Nel peregrinare tra siti a me particolarmente congeniali, come quello di Mauro Scordevelli, scopro una pagina particolarmente impegnativa ma anche di grandissimo interesse e in cui mi ritrovo in pieno anche da un punto di vista dell'arte canora. La pagina riguarda la fisica quantistica ed è un sunto di interventi di Emilio Del Giudice. Ora riporto alcune frasi che poi commenterò:
Principio del minimo stimolo
Significa che se io do un piccolissimo ammontare di energia, i domini di coerenza in basso lo accumulano e cominciano a oscillare. Questa comporta che iniziano a oscillare i livelli superiori.
Se questo minimo stimolo dura per un po’ di tempo, una grande energia caotica viene sommata e produce una grande energia coerente.
E’ come fare un milione di euro tutto in monetine da un centesimo.
Il principio del minimo stimolo contrasta potentemente con l’ideologia della nostra epoca che è il sentirsi forte, il sentire l’energia che attraversa i muscoli, ma questo non rende coerente l’organismo, che ha bisogno di una attivazione verticale che parta dai livelli più bassi.
Questo, alcuni indirizzi terapeutici lo hanno compreso da molto tempo.
Questo principio che contraddice l’opinione comune per la quale per produrre un grande effetto ci vuole una grande causa, venne capito a metà dell’ottocento da due grandi fisiologi tedeschi (legge di Weber e Fechner in psicofisiologia: più piccolo lo stimolo, più grande la risposta).
La cosa particolarmente interessante e positiva di questo studio, e non per nulla si trova in un sito che affronta il problema dell'infelicità, è che questo principio non solo si può applicare e ritrovare in molte attività umane, ma che è utile non solo a quella attività ma, direi soprattutto, ALLO STAR BENE!

La risposta di un organismo a uno stimolo non è proporzionale allo stimolo, ma al logaritmo dello stimolo. (il logaritmo è il num. di zeri che ha un numero. Di 10 è 1. Di 1000 è 3. Di 1 è 0 zero. Di 0,1 è -1. di un millesimo è -3). Più piccolo è lo stimolo più grande è la risposta ma con il segno meno davanti. Che vuol dire questo ? che non è una risposta outbound, ma inbound, cioè l’organismo risponde trasformando se stesso.