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mercoledì, luglio 30, 2014

Accordare lo strumento

L'espressione "accordare lo strumento" viene utilizzata per indicare l'operazione di intonazione di un qualunque strumento acustico; sugli strumenti a corde viene gestita solitamente con un accordatore elettronico, a volte anche sul pianoforte, tecnici professionisti usano solo un diapason o in casi rari il puro solo orecchio; gli strumenti a fiato hanno l'accordatura predeterminata, la si aggiusta in parte manovrando la "testa" dello strumento - più dentro o più fuori - e in parte con la pressione del fiato. Anche il violinista può correggere l'accordatura con le dita.
L'espressione non viene usata nel caso della voce umana se non in modo scherzoso.
Ritengo che invece sia un termine nato con la voce e poi trasferito in modo semplificato negli strumenti meccanici. Accordare nel significato più letterale = mettere d'accordo. Il caso della voce è il più lampante! Mettere in accordo gli apparati: il fiato con lo strumento produttore e questi con quello articolatorio-amplificante. Ritengo che l'utilizzo originario di questo termine in organologia fosse diverso dall'uso attuale e non si riferisse meramente a quella semplicisitica operazione di intonare le corde o il tubo a un "la" determinato, ma fosse quello di mettere in accordo le varie parti dello strumento sicché questo potesse esprimere il massimo delle proprie potenzialità, proprio come deve farsi con la voce. Se lo strumento pone le diverse parti in armonia, si crea l'unità complessiva, pertanto le tensioni che si determinano daranno giustizia anche della esatta intonazione. Contrariamente agli strumenti meccanici, però, la voce ha un comportamento molto più "musicale". Negli strumenti infatti, c'è una condizione statica: il clarinetto o la tromba non cambiano la propria struttura passando da note basse a note acute; un violino o una chitarra hanno corde dove la tensione - e accordatura - è predeterminata; il suonatore preme tasti o chiavi, interviene con diverse tensioni del proprio fiato o delle proprie dita, ma sostanzialmente non modifica la tensione dello strumento; questo invece avviene nella voce, che è principalmente determinata dal fiato, che produce, inoltre, modificazioni tensive di altre componenti, e questo ha una ricaduta di non poco conto sul far musica che, quindi - e non poteva essere che così - si pone come lo strumento principe per trasformare il suono in musica. O meglio, si porrebbe, se ci fossero un buon numero di autentici veri cantanti, il che non è, pertanto per ora di musica ne sentiamo poca o niente.

domenica, luglio 27, 2014

La qualità del fiato

E' comprensibile che qualcuno, con intenti seri o anche provocatori, chieda "ma alla fin fine cos'è questa "qualità" del fiato, di cui sempre si parla in questo blog?".
Non è per niente facile spiegarlo a parole; come la maggior parte delle cose d'arte si riconosce conquistandola. Semplicisticamente alcuni parlano di "pressione" aerea, il che non è del tutto sbagliato, ma sarebbe una sottovalutazione e in qualche modo persino una contraddizione. Infatti i primi grossi problemi che ci si trova ad affrontare in chi inizia lo studio del canto è proprio la pressione, eccessiva, che si viene a creare e che disturba prepotentemente l'emissione vocale, a causa della sua condizione legata alla funzione valvolare laringea. Quindi potremmo dire che la "pressione" aerea polmonare sta alla funzione valvolare laringea istintiva come la qualità sta alla perfetta emissione. La pressione si crea con il sollevamento diaframmatico, e per mantenere questa pressione, che di fatto forza l'ampiezza glottica, occorre una carica muscolare non indifferente, ed ecco quindi il ricorso al "sostegno" addominale oppure le respirazioni diaframmatico-ventrali. Queste sono le tipiche situazioni in cui l'uomo viene "spremuto" (o "strizzato", come scriveva lo sciagurato Celletti) per poter buttar fuori voce (con che qualità si potrà immaginare). Dunque il traguardo da raggiungere è: minima pressione, giusto necessaria a produrre i suoni, costanza, regolarità assoluta. L'unione di questi due parametri, che la conoscenza umana già possiede perché li applica costantemente durante il parlato, ma non assurti a coscienza, si sintetizzano nell'aggettivo: qualità. Ancor più precisamente la qualità è l'unificazione dei tre apparati, che avviene a carico del fiato: esso produce il suono, ma deve possedere quel grado di energia interna (che la normale respirazione fisiologica non ha o ha in maniera esagerata e irregolare) grazie alla quale non solo si determinato le condizioni più ideali di amplificazione senza compromettere in alcun modo l'articolazione, ma consentono il nascere del tipo di suono più sonoro ed elevato, cioè la vocale pura - esterna -, con quelle caratteristiche che le permetteranno di "correre" ed espandersi mirabilmente nell'acustica del locale in cui si canta. Se la vocale può definirsi la più alta qualità di un suono, è logico e meravigliosamente correlato il fatto che per produrla occorra la più elevata qualità di fiato possibile. La pressione ideale è "semplicemente" determinata dalla trasformazione del fiato in suono e non occorre alcun impegno diaframmatico, anzi esso (impegno) viene eliminato, con la soppressione delle reazioni. Ogni più piccola spinta già destabilizza e squilibra tutto l'apparato e quindi spezza l'unità. La fluidità respiratoria che si tramuta in voce è una concezione altissima ma inimmaginabile; solo la nostra conoscenza profonda può giungere a prevedere la possibilità di una simile condizione, che esiste in noi in quanto uomini, ma che solo una volontà estrema, unita a umiltà, sopportazione e "fede" (non in questa scuola o in una qualche divinità, ma in noi stessi) può rendere possibile. Non sto parlando di "sogni e di chimere o di castelli in aria", ma di una realtà tangibile e verificabile, ma paurosamente lontana e difficile da conquistare.

sabato, luglio 26, 2014

Ben parlare

Argomento già toccato in passato e che conto di esplicitare meglio.
Partiamo dal parlato quotidiano, che tutti diranno, giustamente, essere una vocalità povera, sciatta, difettosa, ecc. a questa voce ne corrisponde una anche cantata, altrettanto scarsa - che alcuni definiscono "naturale" - con cui si cantano canzonette e qualcuno ci canta la musica rinascimentale, assurdamente ritenendo che a quei tempi si cantasse così. Ovviamente è una vocalità che cantata presenta enormi limiti di tipo musicale e qualitativo, per cui l'insegnante da cui si va inizia una "cura" per migliorare il canto, facendo esercizi di respirazione e vocalizzi, nonché impartendo consigli e imposizioni relativamente a movimenti e sensazioni interne. Mettiamo pure che queste lezioni producano risultati di un certo interesse nella qualità del canto, che diventerà più intenso, più timbrato, più "importante"; si raggiungerà quindi una certa quota di innalzamento rispetto alla situazione iniziale. Ora la domanda è: che rapporto c'è, a questo punto, con il parlato? Cioè: il parlato è migliorato anch'esso oppure no? Se la risposta è "no", la domanda che consegue è: ma allora c'è stato veramente un miglioramento o è pura apparenza? Non può esserci reale miglioramento se non è stato maturato un innalzamento orizzontale, quindi totale, nella sfera vocale, perché l'apparente miglioramento non ha interessato uno sviluppo respiratorio relativo all'innalzamento delle capacità del fiato di produrre suoni di alta qualità, ma si tratterà solo di una "spremitura" muscolare, dovuta alla buona efficienza fisica, che produce suoni di un certo effetto ma di certo non esemplari e non molto duraturi.


venerdì, luglio 25, 2014

Del talento

Quando ho l'occasione di parlare con qualcuno molto giovane che ha mezzi non indifferenti, lo esorto a non perdere tempo, perché in questo tempo chi è giovane ha molte possibilità in più, viene guardato con molta benevolenza e aiutato, anche se c'è immaturità e scarsa padronanza dello strumento. Cioè, l'agente di turno pensa: sfruttiamo il fenomeno, domani è un altro giorno, ne cercheremo un altro.
Cos'è il talento: è la capacità di mettere in relazione diversi elementi di un fenomeno creando unità.
Qualcuno penserà: ma non è la capacità di cantare senza studiare, o studiando poco? Non è avere una voce pazzesca? non è saper fare una cosa negata alla maggior parte degli altri esseri umani? No, quella è abilità, è fenomenalità. Da qui poi si diparte una giusta riflessione; non si può mica sottacere che ci sono persone che non hanno nessuna possibilità di realizzare qualcosa di seppur minimamente accettabile (ma alcune di queste ci riescono lo stesso, sia pure alla "corrida"); ci sono persone con voci incredibili ma che non possono raggiungere un obiettivo minimo, cantare un'aria o partecipare a un concerto "serio", per totale mancanza di doti musicali (stonano, vanno fuori tempo, sbagliano le note e le parole). Ah, ecco, un'altra parola: dote. Ne aggiungo subito un'altra: privilegio. Questi termini li avevo già spiegati in passato, ma naturalmente li riepilogo qui. Ogni uomo possiede delle POTENZIALITA', cioè possibilità di accedere ad attività non ordinarie. Ognuno di noi avrà letto, sentito, visto notizie, racconti, film, ecc. su imprese eccezionali, come il riuscire a far calcoli a mente molto complessi, percepire pensieri altrui, anticipare avvenimenti, oppure compiere imprese al limite della sopravvivenza. Possono essere migliaia le situazioni da considerare. Per molte di queste c'è una forte incredulità da parte dell'opinione pubblica, per alcune si parla di "miracoli", per altre si parla di "poteri paranormali", ecc. Di fatto è tutto riconducibile a potenzialità che l'uomo possiede e che in alcuni casi si manifestano spontaneamente (in campo musicale, ad es., un caso molto frequente è quello dell'orecchio assoluto, che sarà ben difficile da spiegare... eppure c'è!) per una "identificazione" o "riconoscimento" della dote stessa, che altrimenti sparirebbe. La potenzialità è una sorta di bagaglio d'emergenza, cui l'uomo potrebbe attingere nel caso di un cataclisma che rovesciasse la situazione di sopravvivenza della nostra specie. Naturalmente la maggior parte dei singoli soccomberebbe, però alcuni singoli, in possesso già di una manifestazione spontanea, sopravvivrebbero e a quel punto trasmetterebbero questa loro capacità tramite il dna alle generazioni successive. Questa è un'informazione generica; cosa ce ne facciamo noi per i nostri scopi? Possiamo sfruttare l'esistenza di queste potenzialità per scopi artistici, quindi mediante una disciplina che tolga il "blocco" da parte dell'istinto (che non permette che una potenzialità possa diventare normalità, perché contraddirebbe la situazione così come si è andata delineando nel tempo), si può giungere a far manifestare una potenzialità come possibile in un singolo (non trasmissibile, però). Logicamente se un singolo possiede già naturalmente una certa facilità e spontaneità a manifestare quella potenzialità, noi lo definiamo "talento", ma in realtà di questo si tratta: un privilegiato - almeno da un certo punto di vista - che si trova più avanti degli altri in quel determinato campo. Questo gli potrà essere d'aiuto in un primo tempo, ma non è detto che tale situazione si mantenga. Molto molto spesso i bambini presentano doti eccezionali, che spariscono già tra i 10 e i 13 anni, ma anche chi, con un certo interesse, coltiva questa sua dote, potrà incontrare difficoltà anche notevoli dopo i 40 anni. Infatti non possiamo sottovalutare il fatto che se la potenzialità resta tale, cioè non entra nelle necessità esistenziali dell'individuo, sarà avversata dal nostro istinto che la riterrà una concessione inutile, quindi dannosa, e cercherà in ogni modo di riassorbirla.
Cosa possiamo dire in conclusione? Che tutti potrebbero raggiungere un traguardo artisticamente importante? Forse sì, ma per molti occorrerebbero diverse vite!! Come scrive il M° Antonietti, poi, non si tratta solo della dote in sé, ma di intelligenza, capacità di gestirsi, di relazionarsi, ecc. Per tornare al titolo, invece, bisogna dire che il vero talento non sta nella capacità di esibirsi a un livello accettabile, ma nella capacità di fare sintesi, di prelevare dati dal contesto - diciamo dall'insegnante o insegnanti - ed elaborarli proficuamente ottenendo in tempi rapidi risultati rilevanti. Quindi non necessariamente il dotato, ma colui che pur partendo da zero riesce a manifestarsi artisticamente a livelli gradatamente elevati. Stando alle definizioni standard, il M° Celibidache non si sarebbe potuto definire un talento, come Mozart, ad es., perché la sua capacità si manifestò in modo evidente solo dopo i trent'anni, e addirittura si esplicò al massimo solo dopo l'incontro-scontro con Thiessen, nel 52, a 40 anni. In realtà le cose non stanno così! Il talento di Celibidache, innegabile, è consistito proprio nel sintetizzare molte materie e molti dati fino a costituire una disciplina unitaria, trasmissibile e possibile a tanti, indipendentemente dalle abilità o doti o privilegi che poteva possedere. C'è un video meraviglioso con una lezione di Celibidache alla televisione Svizzera del 74 in cui a un certo punto spiega il concetto di talento. Lo posto qui, gustatelo a spizzichi perché, come gli scritti del m° Antonietti, non è facile da assimilare tutto insieme.

martedì, luglio 22, 2014

Il trattato - 5

Ovviamente le condizioni di accesso al non oltre sono nella legge e il soggetto che vi si spinge è un predestinato; ma perché ciò avvenga occorrono, anche se implicite, condizioni che si possono così riassumere: sofferenza, disciplina eccezionale, volontà non comune, serietà di applicazione, metodo, forza fisica, educazione e, oggi più che in tempi passati, la fortuna di trovare un insegnante che abbia, egli stesso, conquistato il "senso fonico" e che sappia veramente impartire lezioni di canto con piena cognizione di causa. Ovviamente il canto artistico, poi, necessita di tutte quelle nozioni integrative che sono
indispensabili per completare l'esecutore.
Questo è un passo ostico, molto difficile da proporre, me ne rendo conto, a avevo quasi la tentazione di tagliarlo, ma sarei disonesto. Parlare in questa sede di "predestinazione" credo vada oltre i limiti che ci si possa imporre in un blog, quindi ognuno lo consideri come meglio crede, non è poi così fondamentale. Il concetto di "sofferenza", che può risultare un po' banalotto o romanticheggiante, è inteso come "prepararsi a vivere anche con sofferenza le prove che entrare in un percorso artistico probabilmente conseguirà". Ci si troverà sempre, facilmente, a scontrarsi con persone che non accetteranno niente di questa poetica e daranno addosso con ogni mezzo; ci si potrà trovare soli, si sarà assaliti dai dubbi, dalle tentazioni... ecc. Questo non potrà che causare sofferenza, per quanto spesso compensata dalla gioia di manifestare un'arte con cognizione di causa, ma questo sempre e solo dopo molto tempo! Sul resto credo non ci sia bisogno di precisazioni.
L'istinto va aggredito, giocato ed aggirato a seconda dei casi e del momento psicofisico dell'allievo. L'imposto tecnico, comunque esista, va modificato e, se occorre, "smontato" onde poi procedere a "rimontare" quello giusto.
Qui finalmente si entra nello specifico, per quanto difficile da comprendere perché manca una spiegazione dettagliata sul ruolo dell'istinto, che verrà in seguito. E' invece molto importante e ricca la frase successiva: "smontare un imposto tecnico" a chi ha già compiuto studi in tal senso, vuol dire togliere tutti quei legami muscolari a chi ha rafforzato, invece di eliminare, le interferenze valvolari e istintive degli organi preposti al canto. Il termine rimontare, pur comprendendo cosa intendeva, reputo sia sbagliato da usare in questa sede. Non si costruisce e non si "monta" niente, tutto è sviluppo e educazione.
Una voce che si ritiene o viene accettata buona tecnicamente, difficilmente accetta un concetto superiore di imposto (il Farinelli, già nobilitato e pagato a sacchi d'oro, quando chiese un parere a Bernacchi a Bologna e si sentì dire che non era nella giusta imposta-zione, smise di cantare, riesercitandosi con lo stesso per ben due anni).
Quindi, anche se in ultima analisi noi dobbiamo considerare gli eletti dei predestinati, è indubbio che ci troviamo di fronte a condizioni esistenziali eccezionali, intese più generalmente come volontà e intelligenza eccezionali, e non a esistenze fenomenali.
Il concetto di "mettersi in gioco" è uno dei più importanti; il cantante che "se la cava", riceve elogi e gratificazioni, si ritiene già arrivato, non accetta facilmente critiche e difficilmente si rimette a studiare perché qualcuno gli dice che ancora non sa cantare. Anche il grande m° Sergiu Celibidache, già direttore da anni dei Berliner Philarmoniker, ricevette una "mazzata" da un suo vecchio insegnante; accettò la critica, si rimise a studiare da zero e divenne il m° che è diventato, unico nella storia. Ma quanti farebbero altrettanto? Però il punto non è questo, ma per chi inizia a studiare porsi nella prospettiva di puntare a un risultato di alto livello artistico, finché può, ha l'età, i mezzi, le doti.

sabato, luglio 19, 2014

Chiamale se vuoi emozioni

Bene, mi si sta incitando ad affrontare alcuni nodi fondamentali dell'arte e della musica in particolare. Vediamo i tre attori coinvolti: Compositore, Esecutore, Fruitore (l'esecutore-compositore riunisce due figure, che però restano distinte pur in un unico soggetto).
Nel corso degli ultimi, direi, centocinquant'anni, si è fatta strada la figura dell'interprete. Questi è stato un "parto" dell'ultimo periodo del romanticismo, che definirei "romanticume", cioè un'esaltazione decadente di alcuni caratteri tipici del romanticismo, e in particolare dell'individualismo. Ciò è stato identificato con un'altra erronea esaltazione di un mito romantico, quello della libertà, per cui si è ritenuto che un esecutore non dovesse sottostare meramente ai "diktat" ortografici dell'autore, per quanto vaghi, che lo "ingabbiavano" ma dovesse "interpretare" un brano in base a una propria esperienza, competenza e personalità, altrimenti non era libero di esprimere sentimenti ed emozioni, per cui si è fatta larga l'idea che eseguire oggettivamente un brano musicale significasse tout cour privarlo di questi attributi e renderlo "sterile", meccanico, vuoto. In fondo non è molto diverso da quanto è successo in tema di vocalità, cioè arricchire un suono di "rumori" e colori, che per alcuni è ancor oggi imprescindibile, altrimenti ciò che ne risulta è "vuoto", povero, incolore.
Questa è la premessa.
Partiamo da capo: cos'è un intervallo musicale? Quando noi tracciamo una melodia, un tema musicale, eseguiamo una serie di intervalli. Sono essi puramente suoni giustapposti? Sono fredde risonanze fisiche? O ci comunicano qualcosa, anche se fatti con un apparecchio elettronico? La risposta la conosciamo tutti: una serie di intervalli ci darà un certo tipo di sensazione o percezione che, a seconda di alcuni parametri usati, ci comunicheranno piacere, dolcezza, forza, bellezza, tristezza, dolore, gioia, ecc. C'è qualcosa di "interpretabile" in tutto ciò? No. L'autore, con l'ausilio della propria coscienza, più o meno sviluppata, ha identificato un percorso sonoro grazie al quale si manifesta una determinata comunicazione profonda, comunicazione che è decifrabile dalla coscienza di CIASCUN UOMO, con differenze che riguardano la sensibilità, la cultura, l'interesse, ecc., ma di cui nessuno è privo. Allora, se un intervallo è portatore di sentimenti ed emozioni voluti dall'autore, l'esecutore che fa? Se ci mette anche i suoi non farà che sovrapporre o enfatizzare quelli già presenti, contraddicendo, contrastando, esagerando e opponendosi a quello che GIA' C'E'! La vera arte esecutiva, e la enorme difficoltà, consiste nel RICONOSCERE ciò che c'è e permettere di farlo affiorare a coscienza affinché possa essere MANIFESTATO e raggiungere così "neutralmente" (cioè senza le mie "impressioni") l'ascoltatore. E' un po' come se un tizio, invece di leggere una lettera così come è scritta a una terza persona che per qualche motivo non può farlo direttamente, la "intepretasse" a sua discrezione.

Cos'è invece l'esecutore meccanico, apatico, sterile e vuoto? Quello che non ha capito NIENTE e non permette alla musica di nascere, vale a dire che non ha riconosciuto nulla e non permetterà ai suoni di trasformarsi in musica, ovvero, come dicevo nell'altro post, di UNIFICARSI.
Altro luogo comune è quello della "identità" delle esecuzioni. L'altra contestazione "depositata dal notaio" può essere quella di dire: ma allora le esecuzioni saranno tutte uguali, se non "interpreto". Errore più che clamoroso! Ogni esecuzione sarà assolutamente e totalmente diversa in quanto cambia il luogo e il momento (hic et nunc), cambiano una pletora di parametri e condizioni, cui l'esecutore CHE BASA LA PROPRIA PERFORMANCE SULL'ASCOLTO, e non su astratte decisioni a tavolino, dovrà attenersi.
Analogamente arricchire artificialmente il suono di rumori (per lo più con i muscoli della gola) che alcuni individuano come "armonici" (ma dove??) o "smalto" o "timbro lirico", ecc., significa impedire al suono VERO e personale di un cantante di farsi strada e diventare strumento musicale libero, in grado, a quel punto, di poter eseguire oggettivamente il brano.
Qualcuno ritiene anche che raggiungere un ideale di perfezione, cioè svelare i criteri che guidano alla trasformazione del suono in musica, possa arrecare "noia", perché non c'è più il "mistero", la ricerca, ecc. Anche questa è una colossale sciocchezza: l'esecutore, così come l'ascoltatore "informato", non saranno mai "passivi", ma costantemente attivi, proprio nella gioia e nella profonda commozione di riconoscere in ogni istante cosa sta succedendo e come la coscienza si muova. Infatti il grave problema di ogni esecuzione "non orientata" è propriamente quello di un continuo pericolo di caduta dell'interesse, per mancanza di relazioni tra il prima e il dopo.

Nel canto c'è poi un elemento ulteriore da considerare, che è la parola (ammesso che la si colga). Anche qui c'è un dato "interpretabile" e un dato oggettivo. Allora, pur con cariche molto meno profonde rispetto alla comunicazione musicale, in ogni contesto io potrò cogliere il senso di una parola o una frase. Quando dico, ad esempio, "amore", se il contesto è chiaro (può esserci un significato ironico, neutrale, enfatico, ecc.), io non dovrò caricare con sospiri, iperespressività, languori o portamenti, anche gestuali, questa parola, perché esaltandola prima di tutto è come se considerassi cretino chi mi ascolta attribuendogli una incapacità a cogliere il contesto e il significato, rischio fortemente di spezzare l'unità della frase e del percorso musicale e anche sul piano sonoro farei danni non valorizzando ciò che l'autore ha già programmato mediante i parametri musicali (intervalli, altezza, ritmo, colore, timbro, armonia, dinamica) ma sovrapponendo la mia "idea", la mia sensibilità e personalità e impedendo, di fatto, ogni discorso realmente artistico, ovvero di rivelazione di una verità, e cioè ancora, da dove quel brano viene e dove va onde assicurare 'COME E'! Per cui la bravura di un vero artista esecutore non deve essere quella di ESALTARE l'espressione e i significati che SECONDO LUI vanno sottolineati, ma di rendere TRASPARENTE il disegno che l'autore ha saputo realizzare.

mercoledì, luglio 16, 2014

L'appropriazione

Un esempio: una corda o l'aria in un tubo o una membrana elastica, quando, eccitata, emette una vibrazione costante, cioè un suono, dopo pochi istanti si "spezza" in tante parti uguali, sempre più piccole, che emettono, a loro volta, suoni secondari, detti armonici. Questo concetto è anche un paradigma mentale, perché una situazione complicata tende a essere rifiutata dal cervello che non riesce ad elaborare troppe informazioni in poco tempo (ovviamente è un dato con una variabilità fortemente soggettiva). Esempio: se io abito in un paesino e improvvisamente mi trovo a dover vivere in una grande città, mi troverò spaesato e impaurito; questo perché la mole di informazioni (vie, negozi, trasporti, popolazione, punti notevoli, dimensioni complessive) non sono appropriabili in tempi brevi. Questo concetto vale per tutto: quando voglio imparare una disciplina (sia essa uno sport, una materia di studio, una lingua) il nostro entusiasmo e la fretta ci spingono a concentrarci e a cercare più informazioni possibili in tempi brevissimi; quando ci rendiamo conto che non si possono raggiungere subito traguardi notevoli, spesso molliamo tutto, ci deprimiamo e lasciamo perdere, con strascichi di rimpianti. Il problema, o uno dei problemi, è che in realtà ci sfugge proprio il dato essenziale, cioè come il fenomeno è articolato o si può articolare. Naturalmente più il fenomeno è di grandi dimensioni o di relazioni complesse, più sarà difficile comprendere la sua struttura, ma non è poi nemmeno così impossibile, e dovrebbe riguardare il primo punto essenziale di ciascun insegnamento. Per la verità vorrei arrivare a individuare un altro traguardo, e cioè "vivere il fenomeno". Fortunatamente nella nostra esistenza riusciamo a vivere inconsciamente molti fenomeni, che sono i momenti di gioia, di piacere, di entusiasmo. Insomma sono le ragioni che ci fanno "tirare avanti" anche quando magari non conduciamo un'esistenza proprio felicissima, e sono anche, al contrario, le cose che mancano a chi cerca di procurarsele artificialmente, cioè con la materialità e i denari. Un brano musicale è un fenomeno complesso, anche il più elementare (tipo: "tanti auguri"). Qual è il problema fondamentale? che un brano ci giunge in forma fortemente articolata, e non riusciamo ad appropriarcene, o perlomeno è molto difficile, perché l'estrema frammentazione, ci rende molto difficile comprendere qual è l'unità, cioè l'intero. E se già può essere difficile appropriarsi di una composizione elementare, figuratevi cosa può essere una sinfonia, un'opera, un concerto! Ma nonostante questa premessa, in realtà la cosa non sarebbe così difficile se le esecuzioni partissero da questa concezione e si prodigassero per realizzare il percorso. In realtà ogni esecuzione, per quanto buona, finisce per essere una sommatoria di elementi giustapposti, impossibili da relazionare e quindi unificare e rendere appropriabili. Ogni nota, nella sua altezza, dinamica, tempo, armonia e ritmo, è, o dovrebbe essere, la conseguenza di ciò che precede e la premessa di ciò che segue; ogni nota all'interno di una composizione è, o dovrebbe essere, costante relazione tra l'inizio, il punto massimo e la fine, vale a dire che ogni "presente" deve sapere da dove viene e dove va! Se il tragitto è spezzato o slegato dal contesto relazionale in cui è inserito, il fruitore non potrà cogliere il SENSO (cioè la direzione) del brano, cioè sarà come un navigante senza bussola e riferimenti.
Quanto detto è di sicura utilità per chiunque abbia a che fare con la musica, qualsiasi ruolo rivesta, dall'appassionato fruitore all'esperto professionista; naturalmente è quest'ultimo colui che dovrebbe sapere tutto ciò e applicarlo, perché il fruitore non potrà fare niente, se non protestare, laddove mancano le caratteristiche che rendano "digeribile" un brano musicale. Infatti il compito dell'esecutore è, o dovrebbe essere, quello di "predigerire" la partitura all'ascoltatore. Ciò, però, non in un'ottica di personalizzazione dell'esecutore "interprete", ma in un'ottica di verità rispetto all'autore e alla coscienza universale.
Qual è invece, o come si può intendere, l'appropriazione della vocalità per un cantante? La questione di fondo è sempre l'unità. Il fenomeno voce si presenta unitario nella manifestazione del parlato, ma allo stesso tempo insufficiente per un utilizzo di tipo artistico. Nel momento in cui si richiede un elevamento della prestazione, l'unità si spezza, o per meglio dire coloro che si presentano come gli "intenditori" e che vorrebbero insegnare e disquisire di vocalità, non fanno altro che frammentare e concentrarsi su singoli elementi vocali, mancando a costoro qualunque idea, concetto o coscienza di cosa possa essere un'unità vocale, cioè una relazione univoca tra gli apparati che contribuiscono all'emissione vocale. Chi si concentra sul respiro, chi sugli spazi, chi su cartilagini e sfinteri, chi su muscoli e ossa... raramente qualcuno riesce a mettere in sintonia due parti, ma oggigiorno praticamente mai tutti i "nodi", che sono sostanzialmente tre, seppur con qualche sottonodo. Ciò su cui voglio portare l'attenzione è ancora una volta una questione di tempo: pur senza poterne acquisire una piena coscienza, è bene fin da quando si inizia a seguire una vera e profonda disciplina porsi nell'ottica di una unificazione. All'inizio sarà difficile capire cosa c'è da unificare e come, ma ponendosi domande e ricercando soluzioni, ponendo domande all'insegnante, ci si orienterà e si svilupperà la propria coscienza.

sabato, luglio 05, 2014

Il trattato - 4

La tecnica è la scala che conduce all'Arte, ed è una scala irta e lunga che, spesso, appare infinita: solo pochi, nella Storia dell'umanità, riescono a percorrerla tutta, riconoscendo che ha una fine e che è una scala che conduce indiscutibilmente a quella perfezione dove è possibile spaziare, dove lo "spirito" lascia sulle scale il "corpo" e non si preoccupa più di esso, perché lo ha completamente abbandonato e superato come mezzo di conquista o di identificazione. Si riprenderà questo corpo quando si "ridiscenderà" nelle altre vicende della vita, cioè quando si rientrerà a vivere con gli altri esseri, ovvero quando ci si ritroverà con gli altri sulle scale della tecnica esistenziale, per poi rilasciarlo di nuovo quando si camminerà con quell'Arte che non deve avere preoccupazioni per esprimersi.
Il termine "tecnica" qui è usato con l'accezione di "mezzo" attraverso il quale si conquista l'arte. Abbiamo poi preferito definirla disciplina per non incorrere in confusioni, e infatti di seguito si trova la precisazione.
I metodi per fare dell'Arte e quelli per fare della tecnica sono completamente diversi, anche se relativi, perché l'artista conosce i metodi tecnici, ma il tecnico non può mai, in nessun caso, conoscere il metodo per conquistare l'Arte. Indubbiamente vi sono delle affinità, perché hanno in comune il materiale usato, che si può tecnicizzare o elevare a conquista sensoria, ma è indiscutibile che il processo tecnico e quello artistico sono e saranno sempre diversi per la semplice ragione che la tecnica, in ogni caso, è sempre perfettibile, mentre l'Arte, quella vera che intendiamo noi, non ha e non può avere un oltre.
Il concetto di "non oltre" è uno di quelli che ci espone alle maggiori critiche, perché è ritenuto impossibile, presuntuoso, saccente e addirittura blasfemo! Siamo a un bivio: accettare la possibilità che si possa conquistare una condizione di perfezione o non accettarla. Nel primo caso si può proseguire, nel secondo ci si taglia automaticamente la possibilità di entrare in questo percorso. Legittimo, però per costoro il resto del trattato diventa inutile.
Accettiamo che vi siano stati valentissimi cantanti e valentissimi insegnanti che ci hanno tramandato utili consigli, ma siamo costretti a ripetere che è assolutamente impossibile insegnare canto per iscritto.
La trattatistica si è andata popolando soprattutto nell'ultimo Secolo di un numero considerevole di testi. Non vogliamo dire che siano inutili, senz'altro vivacizzano la discussione, però molto spesso sono disorientanti e illusori, quando non confusionari. Sicuramente bisogna considerare che non possono, in nessun modo, aiutare nessuno a cantare o a migliorare vocalmente, sia che siano stati scritti da cantanti, per quanto bravi, sia da insegnanti. Nessuno può sapere quanto questi possano avere piena consapevolezza del processo educativo vocale, per cui occorre sempre porsi alla lettura con un atteggiamento critico, seppur possibilista.

giovedì, luglio 03, 2014

Il focus del fare

Riprendendo la questione del "non fare niente", è bene precisare, per tutti coloro che rispondono "ma non è possibile non fare niente" che si tratta di una questione di "focus", cioè dove e come focalizzare l'attenzione mentre si studia. Il cosiddetto "fare" si riferisce quasi sempre ad azioni meccaniche (azioni sulla laringe, sul faringe, sul velopendolo, sui muscoli del torso) o a indirizzamenti del flusso (suono "in maschera", in nuca, in calotta, sugli zigomi, su parti del palato, ecc.). In poche parole un fare che non prende in considerazione un risultato ma che premette azioni confidando su un risultato. E' un po' come il direttore o il musicista che decide il tempo di esecuzione di un brano a casa sua o, peggio ancora, nella propria testa, senza considerare che quel tempo non ha alcun rapporto con l'ambiente e le condizioni che si verranno a creare nel luogo e nel momento dell'esecuzione. Il focus del fare deve essere orientato a ciò che si produce vocalmente in fase esecutiva e di cui l'allievo deve prendere coscienza. Se io dico a un allievo: alza il velopendolo, tanto per dire, io sto portando il suo focus attentivo lì, nell'epifaringe. Chi ascolta il suono prodotto? L'insegnante? ma l'allievo che vantaggio ne avrà? Ammettiamo pure che esca un suono buono, ma significherà che anche quando canterà dovrà badare a tenere alto il velopendolo? Quale sarà il suo contributo reale alla qualificazione del canto? praticamente zero! E consideriamo che al 90% l'insegnamento del canto è costruito in questo modo, cioè la gran parte dei consigli si basano su azioni che non riguardano le caratteristiche di quello che si canta, e come, ma di quello che si fa materialmente. E' come vedere un bambino che suona il violino guardando esclusivamente dove sta mettendo le dita. Si dirà forse che agli inizi è necessario, ma sta di fatto che se guarda le dita ed è concentrato a metterle nei posti giusti, in base a ciò che ricorda o ciò che vede - o pensa di vedere - non ha alcun rapporto né con la qualità ne con il senso di ciò che produce. Ma qui entriamo anche nel più vasto problema suono/musica, anche più grave, se possibile, del problema canto/vocalità. Dunque due consigli: focalizzate ciò che state facendo in termini di voce tramite le vostre orecchie nel rapporto con l'ambiente in cui vi esercitate, badando a "DIRE" ciò che dovete cantare, con la bellezza, la precisione, la morbidezza di un bel parlato; abolite tutte le idiozie mentali del fare meccanico.

martedì, luglio 01, 2014

Il trattato - 3

Il difetto vocale è compreso nella logica della vita, perché la specie, in genere, non necessita per sopravvivere di uno strumento vocale perfetto, in quanto questo è una esigenza soggettiva eccezionale. Come vi sono persone più dotate o più disposte a certe azioni o tecniche varie, così vi sono persone più o meno disposte ad emettere suoni. In definitiva LA VOCE UMANA E' SEMPRE PERFETTA SE INTESA RELATIVA AL CONTESTO, MA SEMPRE IMPERFETTA SE INTESA COME STRUMENTO, OVVERO COME EMESSA DA UNO STRUMENTO PERFETTO, OVVIAMENTE PERFETTAMENTE ALIMENTATO.
Spiegazione che non ritengo necessiti di ulteriori precisazioni. E' sottinteso che con "strumento" si intende "strumento musicale".

Nel canto vero e proprio, poi, subentra l'esecutore, che forma quella triade che è indispensabile perché si possa intendere il "bel canto" come vera, indiscutibile e infallibile ARTE. Ne consegue che se un cantante non ha disciplinato in perfetto i rapporti mobili ed elastici degli apparati, rendendosene pienamente cosciente, non potrà mai dare il meglio di sé, inteso per ciò che sente "dentro" e che vuole esprimere.
Forse non è chiaro cosa si intende con "triade": perfetta alimentazione (respirazione), perfetto strumento, perfetto musicista. Il riferimento al "belcanto" è inteso come arte, senza necessari riferimenti al movimento storico.
I problemi vocali sono sempre grandi per una percentuale enorme di soggetti, mentre i problemi diventano piccoli se il soggetto è privilegiato dalla natura; una certa gradualità tecnica però è sempre più o meno difettosa, anche quando il soggetto si dedica con una certa serietà al problema "canto". Tuttavia anche i piccoli problemi, che non sono così piccoli se il soggetto intende manifestarsi esemplare, col tempo se non vengono affrontati molto seriamente, si rivelano insormontabili ed insolubili.
Qui abbiamo una categorizzazione: persone privilegiate, con facilità al canto, rari; persone con problemi vocali anche se studiano tecnicamente canto, i più. Nel primo caso i problemi possono essere piccoli, ma se si intende esercitare il canto in termini di arte, di perfezione, di esemplarità, anche i piccoli difetti possono diventare enormi.
La gradualità per raggiungere omogeneità ad alto livello (omogeneità in tutta l'esten-sione), è talmente difficoltosa e lenta da far ritenere il canto nemico acerrimo di un simile risultato. Formare lo strumento, rendere perfetta la respirazione, omogeneizzare perfet-tamente la gamma vocale, fondere perfettamente i "registri", superare ogni e qualsiasi vincolo fisico: se fosse possibile realizzare tutto ciò con la sola teoria e le sole esperienze di ascolto, si risolverebbe immediatamente il problema (le voci promettenti e belle sono milioni), e noi non saremmo qui a tentare di orientare qualche volonteroso al fine di renderlo cosciente che la vera Arte, come tutte le arti, è il risultato della sublimazione dell'atto che la determina, cioè un atto che fa corpo unico con la mente,che deve operare come se l'Arte fosse, come è, un "FLUSSO OPERANTE MENTALE" assolutamente incondizionato.
Nessuna teoria, nessun  metodo o trattato è in grado di guidare un aspirante cantante all'arte vocale; non solo, ma nessuno che non abbia raggiunto questa condizione può improvvisarsi maestro di canto. Purtroppo abbiamo avuto ed abbiamo persone che solo per aver letto trattati o ascoltato dischi o cantanti dal vivo, magari anche conosciuti da vicino e frequentati, ritengono di poter insegnare. Questi sono i primi a dover essere evitati. Credo sia del tutto condivisibile questa visione del cantante artista: omogeneità in tutta la gamma vocale evitando le differenze tra registri. Voce comandata unicamente dalla volontà, quindi flusso mentale operante.