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domenica, giugno 23, 2013

Sul passaggio

Uno degli aspetti che attualmente travaglia gran parte dei cantanti e relativi insegnanti, è come affrontare il cosiddetto passaggio di registro. Mi sono espresso abbondantemente sulle questioni legate ai registri, alla loro esistenza o meno, ai problemi respiratori connessi, e non starò a ripercorrerli ulteriormente qui, rimandando i lettori che non avessero le idee chiare o che non conoscessero questa scuola ai vari post presenti su questo blog su tale argomento.
Da quanto sento in circolazione, mi pare che in campo femminile si stia cercando di schivare l'argomento evitando di fare passaggio di registro petto-falsetto, mantenendo il più possibile (fino all'esasperazione) il registro superiore anche scendendo. Grossi pasticci sento anche nella zona di pseudo passaggio falsetto-testa (re4), dove gli errori causano non raramente problemi in zona centro acuta e acuta. In campo maschile c'è veramente di tutto; in linea di massima mi pare che i pochi soggetti di una certa qualità che ho potuto ascoltare siano più che altro dotati in natura di una notevole predisposizione e non si "scontrino" con rilevanti difficoltà, cosa che, peraltro, è altamente probabile che li investirà prossimamente, come già sentiamo avvenire da parte di discreti cantanti in carriera dai cinque ai dieci anni. Non è un auspicio, ma una constatazione spiacevole.
Dunque torniamo ancora una volta sulla sovrapposizione dei registri e su alcune considerazioni da aver ben presenti nella risoluzione del problema ai fini di un canto che si indirizzi verso l'esemplarità.
Come è noto, esistono due meccaniche laringee per la produzione dei suoni, una più idonea ai suoni centro gravi, che si definisce tradizionalmente registro di petto, e una più idonea ai suoni centro acuti, tradizionalmente falsetto o falsetto-testa. Per una gran parte dell'estensione, nella normalità di tutti gli esseri umani, questi due registri si possono dire sovrapposti, cioè coesistono, pertanto molte note possono essere emesse nell'uno o nell'altro registro. Il problema, per chi canta un repertorio classico, è rappresentato dalla necessità di avere una gamma di suoni che copra l'intera estensione con omogeneità, cioè senza interruzioni o brusche modificazioni di colore, di volume, di intensità, di carattere, ecc. Questa necessità ha preso il nome di "cambio o passaggio di registro". Ricordo che alcuni insegnanti reputano che i passaggi non esistano o che gli stessi registri non ci siano, altri che si canta solo con il petto, altri solo in falsetto (più che altro nelle donne), ecc. Poi ci sono coloro che ritengono anche che esistano molti registri e molti passaggi. Chi ritiene che i registri ci siano, come la scienza medica, già dall'Ottocento, ha dimostrato, ritiene anche che occorra un "metodo" per passare dall'uno all'altro, quindi una tecnica, e che essi, in pratica, non cessino mai di esistere, ma stia all'abilità del cantante passare dall'uno all'altro rendendo insensibile il passaggio, ponendo la laringe e gli apparati vocali alla stessa stregua di un pianoforte o un violino, dove i musicisti devono imparare a fare dei cambi (passaggio del pollice per i pianisti, cambio di corde per i violinisti) virtuosistici in modo da rendere ogni scala o altra figurazione musicale su più note del tutto omogenea. Si dimentica, piccolo particolare, che l'uomo non è uno strumento meccanico e il suo funzionamento è ben più "intelligente", elastico e ricco di possibilità, che manco ci si sognano, ma che per una sfiducia nelle nostre possibilità tendiamo anche a non mettere alla prova. Queste idee sono così radicate, che oggigiorno nessuno (credo proprio nessuno fuori da questa scuola) sia disposto a credere che i registri esistono ma sono annullabili (ho volutamente usato l'indicativo e non il congiuntivo!).
Mentre assai poco riusciamo a comprendere in termini didattici dai primi trattati di canto settecenteschi, chi si sofferma e affronta l'argomento è Manuel Garcia. Nonostante le sue "scoperte" sul suono "oscuro" e sulle caratteristiche di quello, non prende assolutamente in esame l'ipotesi di sfruttare il suono oscuro come tecnica per passare dal registro inferiore a quello superiore. Egli, invece, propone - come era molto probabilmente nella consuetudine delle scuole di canto del tempo - di eseguire alternativamente alcuni suoni prossimi alla nota considerata "fulcro" del cambio, nei due registri, proseguendo così per alcuni semitoni. Come dicevo, lo stesso Garcia indica con chiarezza qual è la nota per ogni classe vocale da considerarsi ottimale per il cambio di registro, e questa stessa scuola è piuttosto fiscale nel pretendere il rispetto di tale consiglio. E' bene quindi fare un po' più di chiarezza per evitare di confondere oltremodo le idee.
Prima considerazione: il registro di petto è più agevole, facile, sonoro rispetto a quello di falsetto. La corda è decisamente meno tesa, tant'è che la pressione aerea può fletterla verso l'alto. Da ciò ne discende che il passaggio alla corda di falsetto produrrà maggiore fatica o impegno; questo determina anche un altro effetto, e cioè che il falsetto si appoggia con minore facilità, anzi nei primi tempi produrrà facilmente suoni con poco o nessun appoggio, quindi suoni flebili, poveri, leggeri. Quando si adotta la metodica suggerita da Garcia, cioè di alternare sulla stessa nota petto e falsetto, pertanto, dovremo rimanere su suoni molto leggeri, altrimenti il divario risulterà troppo evidente, e il lavoro inutile. Quanto è avvenuto in seguito nella storia dell'educazione vocale, non è del tutto sbagliato e da cestinare. L'oscuramento sulla nota di passaggio permette di provocare una maggior pressione nel fiato che consente, di solito, di contrastare la reazione istintiva del diaframma, per cui è possibile e probabile che si riesca a entrare nel registro di falsetto con un pieno appoggio e quindi con pari efficacia sonora. Possiamo pertanto dire che i due modi di approcciarsi alla meccanica dei registri possono essere entrambi validi; quello suggerito da Garcia è ottimale per le voci femminili e per le voci che incontrano difficoltà evidenti nel passaggio alle note di falsetto pieno, ma è anche il modo più corretto e istruttivo per educare il fiato; quello più in uso attualmente, cioè con l'oscuramento - massimo con la U - e il pieno appoggio, è più in linea con un certo tipo di mentalità moderna, per cui è più efficace nel breve tempo, ma può dare, e indica, molte false strade, perché l'oscuramento va facilmente incontro a forti reazioni che vengono affrontate con occlusioni glottiche, affondi, indietreggiamento del suono. Possiamo dire che i due approcci possono anche essere complementari, con qualche attenzione, e sempre avendo presente che per diverso tempo la questione dei registri è bene affrontarla esclusivamente sotto la guida dell'insegnante. Ora un'altra precisazione. Quando si parla del passaggio mediante oscuramento mi raccomando sempre di osservare scrupolosamente la nota peculiare alla classe vocale, per cui il basso dovrà passare sul reb, il baritono sul mib, il tenore sul fa, ecc. ed evitare di spostare tale punto (questo nelle scale e negli arpeggi ascendenti, mentre discendendo è preferibile continuare il più possibile a mantenere il falsetto). Questa raccomandazione è legata in primo luogo a certe presunte "eccezioni", per cui alcuni insegnanti/cantanti ritenengono che un baritono brillante possa passare sul mi nat., che il tenore acuto possa passare sul sol e via dicendo. Per la verità in fase educative le eccezioni possono rappresentare una risorsa necessaria; un tenore che non riesce a passare sul fa, può essere fatto passare sul mi, giusto per qualche volta in attesa che il fiato si irrobustisca. Da questo può derivare una legittima domanda: ma allora quanto consiglia Garcia come si sposa con la raccomandazione di rispettare la nota di passaggio? La risposta sta in quanto già detto, e cioè che alternando note di petto e falsetto non si può dare particolare peso, quindi rimanendo sul leggero si educa in modo più corretto e graduale il fiato, ci sono assai minori probabilità di reazioni diaframmatiche, e la gola è meno probabile che si stringa. Viceversa passare su una nota scorretta utilizzando l'oscuramento e il peso, specie se su note decisamente erronee - 2 o 3 o più semitoni sopra o sotto - porterà a una reazione decisamente più violenta e a conseguenze più marcate.

giovedì, giugno 13, 2013

Riconoscere-riconoscersi

Il punto essenziale dell'Arte sta nel riconoscere. Cosa? Il vero. Il vero è contenuto nell'oggetto o nel gesto di cui quell'arte si avvale; compito del maestro è guidare l'allievo verso la valorizzazione di quanto è necessario per raggiungere quel nòcciolo entro il quale si cela la verità. L'allievo di canto a un certo punto dovrà cominciare a riconoscere il suono vocale "giusto", cioè quello libero, quello privo di impedimenti, ostacoli, resistenze, in grado di esprimere il senso, il noumeno contenuto nel flusso vocale. A questo riconoscimento, però, se ne contrappone un altro, che rende questo primo atto più difficile, e cioè il riconoscer-si. Quando una persona si risente registrata (e mi riferisco anche solo al parlato semplice), prova imbarazzo e talvolta persino vergogna. I motivi sono due; in primo luogo sente una voce diversa da quella cui è abituato, perché l'ascolto ordinario è distorto dalla risonanza interna che risale dalle trombe di Eustachio. In secondo luogo perché sente in modo esasperato difetti di pronuncia, esitazioni, cadenze dialettali e molte altre carenze discorsive. Oggi questo è possibile perché l'abitudine di ascolto di radio e tv crea un modello di paragone (presentatori, attori, ecc.) che in genere ci trova perdenti. Io ricordo bene, avendo fatto radio per circa dieci anni, le prime imbarazzate partecipazioni e poi le sempre più convinte e convincenti presentazioni. C'è in parte un'autoeducazione, in parte una assimilazione a un modello per imitazione. In sostanza noi abbiamo un grande imbarazzo a riconoscere sé stessi e ad accettarsi come tali, in quanto partiamo dal presupposto che siamo carenti, cioè ci autogiudichiamo negativamente. Io ricordo, appunto negli anni della radio, un presentatore che quando parlava con le persone al di fuori del microfono aveva una voce, appena doveva dire qualcosa in trasmissione cambiava totalmente, in quella sorta di "birignao" molto affettatto, con tutte le vocali strette (che nell'opinione comune sono più "eleganti", infatti la classica "madamina" nobile parla con la bocchina stretta e pronuncia strette tutte le vocali) e vagamente nasali. Sicuramente avrà avuto in mente qualche modello cui ispirarsi. Ricordo anche, ma è diventato quasi un tormentone, il mito dell'attore "mattatore" che prese spunto da certe esagerazioni di Vittorio Gassman, cui molti comici ancor oggi accennano, ma che ho anche visto e sentito portare sul palcoscenico con ridicola convinzione. Dunque dobbiamo ancora fare i conti con un sistema di percezione e filtro che non accetta facilmente e volentieri il sè; noi non ci accettiamo per come siamo (e spesso come siamo fatti) e per come ci esprimiamo, non ritenendoci aderenti al "modello"; anche il modo di vestirsi è una chiara esemplificazione di questo concetto. A contrastare questo c'è un difetto peggiore, che è il narcisismo. L'egocentrismo e il narcisismo si manifestano per "rompere" l'adeguamento al modello, ma non lo fanno nell'ottica di un percorso di verità, ma solo per mettersi in mostra, per spiccare rispetto alla massa. Questi spesso ottengono anche successo, perché la massa mitizza coloro che si staccano ma che non mettono la massa stessa in condizione di sentirsi umiliata, facendo capire di essere in errore, ma perseguendo solo un processo di autoesaltazione, esteriore ed economico. Viceversa il "diverso" che tende a mettere in luce la verità, crea molto astio, perché, tramite studio, analisi, esercizio di esplorazione e approfondimento, permette alle persone di capire che una verità c'è e si può raggiungere, ma costa molto in termini di impegno, di volontà, di tempo, e questo significa fatica. Dunque non solo volontariamente e consciamente, ma istintivamente la comunità allontana più facilmente le persone sincere e foriere di percorsi qualitativi che non i "pazzi" stravaganti, perché innocui sul piano della coscienza. Il mondo del canto è, ça va sans dire, zeppo di questi esempi, cioè una enorme massa di persone che oggigiorno vogliono studiare canto non per sviluppare la propria voce ma per "diventare" la voce di qualcun altro ritenuto modello. Quasi mai questo affiora alla coscienza, quasi nessuno lo ammette, anche quando le somiglianze e gli stereotipi emergenti sono evidenti, ma è quasi sempre così, e più l'insegnante cerca di purificare e valorizzare la voce propria della persona, più questa presenterà ribellioni di vario ordine, fino ad abbandonare quel maestro e rivolgersi a chi invece - sempre incosciamente, il più delle volte - farà percorrere proprio la direzione opposta, cioè uccidere la singolarità per rendere quella voce una delle tante, rumorosa quanto basta per assomigliare - spesso grottescamente - a quella più amata. Morale della favola: se prima - o durante - lo studio del canto non si impara a riconoscere ed accettare sé stessi, si rischia la "clonazione". Può anche andar bene così, basta saperlo.

lunedì, giugno 03, 2013

Complessità e semplicità

Non v'è dubbio che viviamo in un mondo, o una società, complessa. La complessità ormai domina ogni attività umana, ma si presenta in forma semplice, la cosiddetta "interfaccia". La apparente semplicità d'uso nasconde la complessità sottostante che per la maggior parte delle persone risulta del tutto sconosciuta. Esempi ce ne sono a dozzine: una radio, un pc, una televisione, un hi-fi, sono meccanismi molto complessi, che però si azionano con molta semplicità. Purtroppo quando la gente impara l'uso semplice ma ignora quanto vi è sotto, è anche in balia di quanti possono usare tali mezzi a scopi bassamente commerciali, quando non criminosi. Ma ormai della complessità non si può fare a meno; quanta complessità c'è in un solo transistor, in una confezione di un qualunque oggetto, che buttiamo via e costa pochi cent., eppure richiede una tecnologia sofisticata. Non ci sono più le botteghe artigiane; una volta, ma mica tanto tempo fa, non c'era quasi spazzatura nelle nostre case e nelle strade (che ora sono ovunque invase) perché i prodotti erano sobriamente confezionati e tutto veniva riciclato, era veramente poco ciò che avanzava, e anche quel poco a qualcuno sempre interessava, vedi i "ferrovecchio", i raccoglitori di cartone, ecc. Allora, questa sofisticazione e complessità, crea anche una sorta di moda e di estetica, per cui oggi non possiamo andare in un teatro e vedere dei semplici fondali dipinti, per quanto di qualità, perché risulterebbe "povero", scarno; abbiamo bisogno di illuminazioni fantasmagoriche, effetti tridimensionali, palchi semoventi e quant'altro. La stessa musica popolare non può più "abbassarsi" a "canzonetta", come negli anni 50 e 60, quando eccellenti musicisti riuscivano a scrivere melodie accattivanti e di grande presa utilizzando con grande raffinatezza armonie e giochi contrappuntistici di grande efficacia, per cui gran parte di quei brani sono ancor oggi conosciuti e apprezzati, anche dai giovani, ma vanno alla ricerca di effetti sonori e ritmici aiutati da programmi elettronici (e casse acustiche a migliaia di watt con bassi devastanti per le orecchie e gli organismi) che ovviamente solo quello sanno fare, non possedendo fantasia, creatività, intuizione, ecc. In sostanza, semplicità viene omologato a povertà, a dilettantismo, mentre la complessità è indice di ricchezza, di successo, di professionismo, ma dove il professionismo non è professionismo di idee, di pensiero, di ricchezza interiore, di contenuti, ma perlopiù di esteriorità. Lo studio del canto risente della stessa tragedia. In questi giorni più di un allievo mi chiedeva, e si chiedeva, come mai certi esercizi e un certo approccio al canto, non si fanno più pur essendo presenti e ben chiari negli antichi metodi di canto. La risposta è che gli insegnanti manco li vedono quegli esercizi, se qualora anche li avessero notati, non hanno idea di come metterli in pratica, e quand'anche ci provassero rischiano di ritrovarsi contestati perché quegli esercizi sembrano appartenere ad altri mondi, ad altre epoche: anacronistici, fuori moda, fuori stile e sostanzialmente inutili. Ma la verità non ha storia, non ha tempo. E' necessario approcciarsi al canto sfrondandolo dalle sovrastrutture; esso non è e non ha nulla di complesso; è complicato parlarne, perché le parole confondono e si confondono, si intrecciano, si sovrappongono, si contraddicono e vogliono cristallizzare qualcosa che invece è in divenire in ciascuno di coloro che vuole disciplinarsi al grande canto, e che può solo alimentare la propria coscienza con quanto va facendo e forse scoprendo ad ogni lezione, un piccolo gradino ogni volta, ma anche uno zoccolo indistruttibile su cui poggerà il proprio magistero canoro, se avrà fiducia in sé stesso, nel proprio fiato e nella disciplina che segue. Scoprire innanzi tutto come si emettono suoni semplici di grande efficienza sonora, cioè molto sonori e diffusivi con il minimo dispendio, nella perfezione di pronuncia. Contemporaneamente si imparerà anche a collegare tali suoni in parole e frasi, quindi frasi musicali, frasi in un contesto musicale completo che contemperino anche dinamiche, agogiche, semantica e carattere del testo e del brano, relazione con altri cantanti e/o strumenti. Non è una logica sommativa, di sovrapposizione o giustapposizione, ma esponenziale! Come nella formula della relatività, noi rileviamo che ogni volta che uniamo degli elementi in una processo di unificazione, non otteniamo una semplice somma o moltiplicazione, ma un potenziamento quadratico, se non cubico o oltre, del singolo elemento. Ogni qualvolta mettiamo in atto una forza per ottenere questo risultato, lo dimezziamo; lo possiamo ottenere solo per una strada di apparente impoverimento, accontentandosi. Insomma, siate francescani anche nel canto e nella musica!!!!