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giovedì, maggio 31, 2012

What's ... "istinto"?

Mi sto rendendo conto che uno dei temi e termini fondamentali della nostra disciplina è coperto da una coltre di misconoscenza. Devo dire di essere rimasto attonito, nel fare un giro nella rete internet, all'aura di ignoranza (nel senso proprio del termine) che circonda questo termine, che viene spesso indicato come qualcosa di misterioso e incomprensibile. Fortunatamente esistono anche studi e approfondimenti interessanti e chiari, se pur in molti casi si possa verificare l'esistenza di un ambito terminologico un po' ambiguo. Da qui la mia preoccupazione sull'opportunità di definire meglio il campo ed eventualmente utilizzare termini di più sicura e chiara comprensione per tutti.
Intanto definire, ancora una volta, che "l'istinto di perpetuazione e difesa della specie", è quello cui facciamo sempre riferimento quando parliamo di educazione della voce umana. "Agire per istinto" talvolta può essere un'affermazione che allude a capacità divinatorie o profetiche. Non che questo argomento non c'entri e non sia trattabile, però attiene già a un campo più ampio di cui ci occupiamo a parte. Daniel Goleman nel fantastico libro "intelligenza emotiva", approfondisce da par suo tutto il discorso del funzionamento del cervello, però mi pare che citi raramente il termine "istinto", pur, di fatto, analizzandolo e spiegandone a fondo il funzionamento. Traggo da questo libro un passo: "Nell'arco di milioni di anni di evoluzione il cervello ha sviluppato i suoi centri superiori elaborando e perfezionando le aree inferiori, più antiche (la crescita del cervello nell'embrione umano ripercorre a grandi linee questa traiettoria evolutiva). La parte più primitiva del cervello, che l'uomo ha in comune con tutte le specie dotate di un sistema nervoso relativamente sviluppato, è il tronco cerebrale che circonda l'estremità cefalica del midollo spinale. Esso regola funzioni vegetative fondamentali come il respiro e il metabolismo degli altri organi; inoltre controlla le reazioni e i movimenti stereotipati. Non si può affermare che questo cervello primitivo sia in grado di pensare o apprendere; piuttosto si tratta di una serie di centri regolatori programmati per mantenere il corretto funzionamento e l'appropriata reattività dell'organismo, in modo da assicurarne la sopravvivenza." Questa descrizione calza perfettamente con una fondamentale definizione di istinto, anche se non è del tutto completa, e si va a integrare, almeno in parte, nell'evoluzione successiva: "Da questa struttura molto primitiva, il tronco cerebrale, derivarono i centri emozionali" e successivamente la neocorteccia, cioè il cervello "pensante". La parte emozionale del cervello è anch'essa parte integrante dell'istinto; i riflessi, le reazioni improvvise, la paura, la gioia, l'ira, ecc., sono quelle che definiamo anche volgarmente "reazioni istintive". Sull'argomento ha indagato a fondo anche il dr Paul D. MacLean, autore di importanti studi neuropsicologici. Egli divide in tre parti l'encefalo e individua in particolare: R-complex (o cervello rettiliano): si occupa dei bisogni e degli istinti innati nell'uomo; gli operatori rettiliani sono i seguenti: isoprassico, specifico, sessuale, territoriale, gerarchico, temporale, sequenziale, spaziale e semiotico.

Vediamo alcune definizioni trovate in rete: Wikipedia così si esprime: "L'istinto è un impulso di origine psichica o motivazione che spinge un essere vivente ad agire per la realizzazione di un particolare obiettivo, mediante schemi d'azione innati e, appunto, "istintivi". E' una definizione, a mio avviso, piuttosto vaga e che mi pare anche confusa. Leggendo il seguito della definizione, che non riporto, mi pare che la confusione aumenti. Riporto però questa riga: "Talvolta ci si riferisce all'istinto riferendosi ad intuizioni improvvise e senza fondamento che, per questo, appaiono innate ed "istintive": in questi casi si è soliti riferirsi a tali episodi con il termine "sesto senso". Qui si fa dunque riferimento a qualcosa di diverso dal comportamento, e che riguarda una "memoria" e capacità che si sogliono indicare come "extrasensoriali", "paranormali", ecc. e che ci possono riguardare, ma in una sfera più ampia, di cui non ci occupiamo al momento.
Mi pare, invece, ben esposto questo concetto in un libro di Jacopo Fo (Guarire ridendo): "L'istinto di conservazione è molto utile, ti permette di capire che c'è differenza tra te e il treno che sta per investirti (e che è meglio che ti sposti).
Si tratta di un meccanismo complesso che regola le nostre reazioni seguendo una procedura elaborata in milioni di anni. Sicuramente la miglior procedura, in caso di pericolo.
"; ma ancora, più avanti:
"- Il senso di unione col mondo
- la rinuncia al senso di colpa
- l'abbandono della tensione mentale
- la riapertura dei sensori del piacere
- il rilassamento muscolare
GETTANO NEL PANICO L'ISTINTO DI SOPRAVVIVENZA
Non che sia cattivo, è solo stupido.
Devi prenderlo con calma e spiegarglielo.
Diglielo: «Senti tu, testa di zanzara, ma lo sai che ci sono altri Istinti di Sopravvivenza più gentili e più intelligenti di te che sono meno assillanti?
" Molto acuto, ma non so come prosegua.

Da L'istinto e la ragione, Università di Teramo: "... il nostro cervello è costituito da un’insieme di cervelli “diversi”. Esiste un cervello “primitivo”, che governa le funzioni vitali come il battito del cuore, la respirazione, la pressione sanguigna e l’equilibrio, ed è comune a tutti gli esseri viventi. Poi c’è un secondo cervello, dove si generano le emozioni e in cui governa l’istinto. Il terzo cervello, quello che si è sviluppato più recentemente nel corso dell’evoluzione dell’essere umano, è invece la parte capace di pensare..."; mi ritrovo abbastanza in questa definizione, abbastanza vicina, seppur inespressa, a Goleman.

Leggo spesso che determinate capacità sono istintive, ma le perdiamo o dimentichiamo crescendo. Non è una corretta osservazione, perché l'istinto non si può dimenticare o perdere, essendo fissato in noi. Se è realmente qualcosa di istintivo è da considerare che questa "dimenticanza" o perdita, è insita nell'istinto stesso, cioè è qualcosa che è legato a una certa età, e sparisce col tempo. E' quindi anche errato ritenere che i comportamenti istintivi siano fissi e indipendenti.

Dalla presentazione del libro "l'istinto" di Osho, traggo questa sintesi: "l’intelletto usa tutta la propria astuzia nel creare prima le domande e poi le relative risposte; inoltre continua a far scaturire da quelle risposte altre domande e altre risposte. È in grado di costruire palazzi di parole, sistemi di teorie; ma tutto questo non è altro che aria fritta. Il corpo non può fidarsi del tuo intelletto, poiché il suo compito è vivere. Ecco perché le funzioni essenziali del corpo sono tutte nelle mani dell’istinto: la respirazione, le pulsazioni cardiache, la digestione del cibo, la circolazione del sangue; nel tuo corpo accadono mille e un processo ai quali non partecipi affatto. [...] La natura ha affidato all’istinto tutte le funzioni essenziali del tuo corpo e ha lasciato a te tutto ciò che può dare un significato alla tua vita… poiché il vivere in sé, il semplice sopravvivere, sarebbe insignificante. [...] i poeti, i pittori, i musicisti, i danzatori, gli attori, sono tutte persone irrazionali. Creano tantissima bellezza, sono grandi amatori, ma sono assolutamente disadattati in una società costruita dall’intelletto: nella vostra società, gli artisti sono considerati praticamente dei paria, un po’ folli, dei tipi fuori di senno. Nessun genitore desidera che uno dei suoi figli diventi un musicista, un pittore o un ballerino; tutti vorrebbero che i figli diventassero medici, ingegneri o scienziati: queste sono le professioni che rendono. La pittura, la poesia, la danza sono professioni pericolose, rischiose: potrebbero ridurti a mendicare, a suonare il flauto per le strade. [...] Purtroppo la tua mente, il tuo cuore e il tuo corpo sono in conflitto tra loro, pertanto tu stai sprecando tutta la tua vita in questo conflitto; una perenne lotta tra l’istinto, l’intelletto e l’intuizione! [...] noi viviamo sotto le minacce dell’intelletto, poiché esso ha dato un potere enorme alla scienza; ma quel potere è in mano a bambini, non ai saggi. L’intuizione rende saggi." Molto interessante, e ci ritrovo molti spunti di condivisione, però anche lui non sembra prendere in considerazione il conflitto tra l'istinto e la promozione conoscitiva, forse perché anche lui non ha "intuito" (ahi, ahi) che l'istinto è un'intelligenza, non solo un programma fisso, ma usa delle strategie per compiere la sua opera; saranno semplici e rozze, ma le ha e le usa.

Da "pillole di saggezza" traggo questa definizione: "Il contenuto intellettuale dell’istinto animale o umano è come il programma software di un computer, che tramite le sue istruzioni, è in grado di gestire tutte le periferiche previste, ma solamente nell’ambito per cui è stato progettato. Quando avvengono delle situazioni non attese, la reazione incontrollata potrebbe non essere conforme e può creare dei danni."; interessante e ci ritroviamo la nostra visione del canto, ma sempre a patto di considerarlo non come già appartenente all'istinto.

"L'attributo di istintuale spetta solo a quei processi inconsci ed ereditari, che si manifestano uniformemente e regolarmente. Nel contempo essi devono recare i segni di un'indefettibile necessità, cioè possedere una natura riflessa del tipo indicato da Herbert Spencer. Questi processi differiscono dai semplici riflessi senso-motorii solo per la maggiore complessità. (Carl Gustav Jung)".
"L'uguaglianza degli istinti è una parentela tra gli uomini. (Alphonse de Lamartine)"
"La voce dell'istinto, cui l'animale selvatico, nello spazio vitale in cui si trova naturalmente collocato, può ubbidire senza freni, perché essa lo consiglia sempre per il bene dell'individuo e della specie, nell'uomo diviene anche troppo spesso fonte di suggestioni perniciose, ed è tanto più pericolosa in quanto ci parla nello stesso linguaggio in cui ci si manifestano anche altri impulsi, ai quali ancor oggi non solo possiamo, ma dobbiamo ubbidire. L'uomo è quindi costretto a vagliare alla luce del pensiero concettuale ogni singolo impulso [...]. (Konrad Lorenz)"
La cosa interessante è che mentre sul piano strettamente scientifico il campo appare piuttosto lacunoso e instabile, i filosofi ci hanno sguazzato in lungo e in largo con studi davvero sorprendenti (in particolare direi quelli di Lorenz, che si sono ampliati all'epistemologia evolutiva (e gnoseologia)). Questo non è sorprendente, in fondo. Mentre risulta non facilissimo dare una sede e un quadro definitivo, incontrovertibile, di una serie di comportamenti e attività quanto mai "inafferrabili", complessi e sfuggenti all'analisi e allo studio medico, risultano invece quanto mai stimolanti sul piano del pensiero, in quanto ci portano a chiederci perché esistono e come fanno a esistere questi istinti comuni a gran parte degli esseri viventi se non si ammette l'idea di un "costruttore". E non per nulla anche il m° Antonietti si trovò a dover spiegare gnoseologicamente - non il canto ma - il tragitto di acquisizione artistico del canto. E si rende necessaria anche un'esplorazione su ciò che è stato detto in merito ai "sensi", loro nascita, evoluzione, sviluppo, regresso, ecc.

domenica, maggio 27, 2012

L'Arte del respiro

Allego subito al precedente questo post suggeritomi dal video che mostro sotto.
Più volte troviamo citata, negli antichi trattati, l'Arte del respiro. Salvo poi capire in cosa consiste, e purtroppo in merito ognuno ha voluto vederci quel che ha voluto. Per la maggior parte di cantanti e insegnanti, significa soltanto che si deve respirare a fondo, molto copiosamente. Per altri, già meno, è la capacità di espirare con un certo controllo. Quasi tutte le scuole relazionano la capacità respiratoria con il controllo diaframmatico, con argomentazioni talvolta convincenti altre molto meno. Con Arte del respiro non si intende e non si può intendere un'unica abilità del cantante, ma almeno tre, tra fisiche e mentali, e tutt'e tre molto difficili da apprendere e applicare. Richiedono anni di dura disciplina anche a chi ha buoni doni di natura (e che in genere è il meno propenso a esercitare). La più difficile da comprendere, e anche la più importante, sta proprio nella qualità espiratoria. L'errore comune è quello di pensare che la respirazione del cantante sia solo governata diversamente da quella fisiologica, mentre non si avvede che la differenza è interna all'aria stessa. E' un concetto apparentemente semplice, ma mi rendo conto, invece, essere diabolicamente difficile, al punto di risultare astruso per molti, e quindi rigettato e ritenuto falso, inconsistente, stupido. La qualità della respirazione artistica si disciplina nel rapporto continuo tra suono, articolazione, pressione diaframmatica. Questa condizione è presente naturalmente nel parlato, ma al livello di minimo impegno. Questo rapporto tra il fiato e gli apparati si spezza appena si prova a cambiare il ruolo dell'emissione. Quando usciamo dalla normale e istintiva parola comunicativa automatica, la sintonia tra gli apparati si slega, perché in loro (o nella mente che li controlla) al mutare delle condizioni viene a mancare la conoscenza e la motivazione per tenerli insieme. Se uno, cambiando lavoro o luogo o condizione di vita, si trova improvvisamente a dover parlare molto di più e più intensamente, magari in un grande spazio, si troverà quasi certamente in difficoltà; avvertirà affaticamento, bruciore in gola, andrà incontro a raffreddori e mal di gola più frequentemente, sarà infastidito da presenza costante di catarro e muco, con tosse e frequenti abbassamenti di voce. In molti casi queste persone ricorrono a logopedisti oppure, meno consigliabilmente, si riempiono costantemente di medicinali o cure più o meno naturali. In alcuni casi dopo un certo tempo queste persone si "abituano", e superano la fase, riuscendo a gestire nuovamente la propria voce. Questo è dovuto al fatto che i nostri organi non sono rigidi e meccanici, ma, insieme all'apparato nervoso che li regola, possono adattarsi e tutto l'organismo possiede degli spazi di "tolleranza" alle nuove situazioni, che sono variabili da persona a persona (dipenderà anche da caratteristiche di adattamento e di volontà della persona stessa, del carattere, delle prospettive, ecc.). Quindi: aumentando il volume della voce, il fiato tende ad aumentare la pressione che preme sulle corde e sul diaframma; questo crea problemi perché la laringe in presenza di una maggiore pressione tende a chiudersi, essendo una valvola, e questo causerà nel soggetto lo stimolo a spingere ulteriormente. Questa pressione è del tutto sproporzionata alle necessità delle corde vocali per emettere quel suono, quindi si crea quel senso di strozzamento molto tipico e diffuso anche tra gli aspiranti cantanti. Come si comprenderà, pertanto, è già solo sufficiente voler parlare più forte del normale per un certo tempo per mandare in crisi l'insieme degli apparati che concorrono alla fonazione. Questo complesso di relazioni va ulteriormente disgregandosi quando si cercherà di emettere suoni particolarmente lunghi e omogenei, quando si andrà verso note poco o mai usate, quando si cercherà di usare un atteggiamento sonoro inusuale (il falsetto o testa), e così via. Quindi la prima e fondamentale Arte del respiro consisterà nel mantenere costantemente, per tutta la gamma vocale e per ogni sfumatura espressiva, dinamica, agogica, articolatoria, quella rete di relazioni tra fiato, diaframma, laringe e spazi articolatori-amplificanti. Credo che detto così assuma l'importanza e la complessità che le spetta, pur non dovendo spaventare fino a ritenerla impossibile, perché, come ripeto, non è una cosa sconosciuta, da inventare o creare, ma da estendere, essendo già implicita nel parlato. Questa condizione nel canto non può esistere in partenza e non può essere assunta in un breve tempo; è fuori luogo pensare di esercitare la respirazione atta al canto esemplare in tempi brevi; si saprà ben respirare quando si saprà ben cantare! il connubio è inscindibile, ed è un visionario chi lo pensa possibile. Per questo l'Arte del canto (o meglio della voce) è l'Arte del respiro, perché possono solo andare di conserva. L'Arte del respiro per la produzione di suoni esemplari si può solo esercitare, apprendere, sviluppare e conquistare con l'esercizio vocale che abbia quella finalità.
D'altro canto ciò non basta ancora, occorre, nel tempo, anche una partecipazione fisica (secondo aspetto), che va oltre la postura fisiologica, quindi nel tempo, man mano che la qualità del respiro aumenta e migliora (cioè perde le caratteristiche di aria con ruoli esclusivamente fisiologici), occorrerà assumere quell'atteggiamento che permetterà il suo miglior utilizzo in funzione fonatoria, ed ecco la postura nobile fino a quel "galleggiamento" del fiato, condizione straordinaria e inconoscibile da chi non l'ha conquistata (i soliti fessi ridacchieranno a questa affermazione, perché tutti presi dall'affermazione del proprio ego e quindi dalla possibilità di espandere la propria conoscenza e frenati dalla limitatezza del proprio pensiero). Questa postura respiratoria (che è un'esigenza della respirazione stessa, quindi quasi una necessità che si viene a creare, non un artificio) sarà anche quella che permetterà l'agilità rapida e staccata, ovvero, e siamo quindi al terzo aspetto, quel fiato NON trattenuto, ma non premuto, per l'appunto galleggiante. Mi riferisco, per spiegare meglio questo concetto, al filmatino sottostante.

Voi vedete che in fase inspiratoria il diaframma si abbassa e la gabbia toracica si espande leggermente. Qui non si vede, ma sapete che di norma anche la parete addominale si avanza. Può sembrare strano che mentre il diaframma scende il torace si espanda, perché i legami che fissano il diaframma alla gabbia tendono a farla chiudere. E infatti ciò che apre il torace è il fiato stesso (o polmoni) che preme sia in basso che in avanti (indietro no, perché la parete posteriore è rigida). Quindi si creano delle forze contrapposte molto insidiose e deleterie ai fini artistici. Se il torace viene sollevato mediante i muscoli esterni, noi abbiamo un alleggerimento della funzione espansiva dei polmoni, che non devono più premere contro lo sterno ma trovano facile espansione in avanti, ma anche in basso, perché l'intero apparato polmonare sollevandosi troverà libero spazio anche al di sotto, non dovendo più premere contro gli intestini, e infatti la parete addominale non avrà più necessità di avanzamento. Se questa condizione viene mantenuta durante la fonazione, il fiato perde quella pressione eccessiva che determina i difetti, e si creano, invece, i presupposti per un canto agile, eguale, omogeneo, facile, esteso, libero, mentale; questo darà anche la possibilità di respirazioni brevi e rapidissime, quel "rubare" che stava certamente alla base delle mirabolanti imprese dei grandi belcantisti del Sei e Setteecento, con le propaggini fino a inizio Novecento, un sogno per noi oggi, vittime di un sistema, ahimè anche con etichette scientifiche, che sta affossando culturalmente e artisticamente ogni espressione dell'antico culto del canto.

L'agilità staccata

Prima di proseguire nell'approfondimento di alcuni importanti aspetti legati alla nascita del melodramma, che sono anche fondamentali per quanto riguarda lo studio della voce, mi accingo a parlare di un argomento tanto importante quanto complesso e articolato: l'agilità staccata. Quando ho iniziato, poco tempo fa, a scrivere in merito al tema dell'agilità, l'ho suddivisa in legata e staccata; è, credo, evidente, che può esistere anche una agilità "mista", cioè con parti da eseguire staccate e parti legate. Queste alternanze sono molto utili sul piano espressivo e tecnico, e forse più difficili delle due agilità pure prese a sé stanti.
Mentre l'agilità legata può essere eseguita indifferentemente su tutta la gamma, quella staccata è più propria delle corde sottili (falsetto e testa, ed ecco quindi il grande proliferare di soprani acuti di coloratura), risultando quindi più difficile quando viene eseguita in corda di petto, e quindi soprattutto dalle classi vocali più gravi. Questo perché la corda di petto è una corda spessa, quindi si muove con minore agilità, come è facilmente intuibile. Il problema numero uno dell'agilità staccata, manco a dirlo, è la respirazione, ma qui il problema si fa talmente macroscopico, da far veramente credere che questo tipo di agilità sia destinato solo a persone particolarmente dotate. La pazienza, lo studio costante e concentrato, sono le sole armi che si possono usare per poter sperare, se non si è in quella condizione, di raggiungere un valido risultato. In cosa consiste più precisamente questo problema respiratorio? Credo di riuscire a spiegarlo abbastanza facilmente: se voi provate a eseguire alcuni suoni staccati, ad esempio sulla "O", piuttosto rapidamente, vi accorgerete subito che sprecate un mare d'aria. Se poi provate ad accelerare ulteriormente, vi accorgerete di non riuscire più a staccare i singoli suoni. Oltre a ciò vi renderete anche conto del grande contributo muscolare richiesto in zona sottosternale. Insomma: difficoltà a eseguire una lunga sequenza di note staccate per consistente spreco di fiato, affaticamento fisico, difficoltà di intonazione, intensificazione e pulizia del suono. Qui si comprendono meglio tante frasi degli antichi trattati legate alla capacità di trattenere il fiato, alla sostenutezza di petto e alla forza del petto. La frase "trattenere il fiato" è, mio modo di vedere, inopportuna, però è proprio quello che si è portati a considerare, visto il rapporto così sproporzionato che si realizza tra quantità di fiato, pressione e singoli suoni da emettere. Sinceramente si può comprendere anche, pur non potendolo condividere, il consiglio di Garcia relativamente al colpo di glottide. Quest'ultimo artificio è infatti un possibile mezzo meccanico per pronunciare nettamente le vocali evitando ulteriore uscita di aria, e questo certamente permette una agilità staccata intonata, pulita e sufficientemente lunga. Naturalmente noi riteniamo che ci sia di meglio! E a questo proposito ritorniamo a dire, come nel primo post sull'argomento, che l'agilità è meglio cominciarla a studiare (seriamente) quando l'educazione vocale ha già raggiunto un discreto livello. Questo perché due sarebbero le condizioni ottimali per poterla ottenere con caratteristiche significative: la pronuncia "fuori" dalla bocca (piccola e avanti), e una respirazione già integrata a costale (se non addirittura galleggiante). Infatti una agilità staccata con una respirazione diaframmatica è pressoché impensabile a meno che non sia glottica. Peraltro anche una respirazione costale imperfetta comporterà grossi problemi, in quanto la ricaduta delle coste comporterà un aumento di pressione dell'aria e quindi una decisa difficoltà a mantenere la costanza e l'omogeneità di emissione dei diversi suoni, che dovrebbero invece presentarsi come "perle". Questa condizione è possibile a patto che l'aria non abbia una soverchia pressione, che ci metterà nella condizione di non riuscire a trattenerla o controllarla. E' quindi indispensabile esercitare (ma sempre a patto di essere nelle condizioni per poterlo fare senza ripercussioni) un tipo di respirazione che non faccia ricadere le coste. Questo fenomeno, infatti, comporta quasi automaticamente l'aumento di pressione sottoglottica, che è invece da diminuire drasticamente; ecco perché questo genere di agilità è bene riservarla a quando si sarà "domata" gran parte della reazione istintiva. Inoltre è indispensabile riuscire a sentire o percepire la pronuncia delle vocali esternamente, riuscendo, poco alla volta, lentamente e poi accelerando, a emettere sequenze di vocali staccate tutte uguali e tutte fuori. Questo tipo di agilità si presenterà subito molto netta e forte, al contrario di tanta agilità imperante oggi che si presenta alquanto debole. Naturalmente è difficilissimo riuscire a mantenere a lungo quella postura e quella posizione di suono, sia per la concentrazione che richiede per l'impegno fisico; si sarà tentati a ogni suono di farla rientrare verso la gola, di farla legata, di alleggerirla e impoverirla. Ma sappiamo che la verà agilità belcantistica era tutt'altro che debole e povera! Raggiungere l'abilità respiratoria idonea a questo tipo di agilità perseguirà anche il fantastico risultato di riuscire a "rubare" i fiati in tempi record, il che vuol dire che con qualche abilità si riuscirà a cantare lunghe frasi dando l'impressione di non aver mai respirato!

lunedì, maggio 21, 2012

Piccolo approfondimento storico-artistico

E' evidente a tutti, credo, come la Grecia abbia rappresentato uno dei momenti più alti in campo artistico e filosofico (non cito a caso queste due discipline, perché secondo noi sono strettamente connesse); decaduta quella civiltà, ci sono voluti circa 2000 anni perché qualcosa di analogo si ripetesse nell'Italia Rinascimentale. Tra le due epoche intercorrono forti legami, in particolare gli Umanisti del '500 studiano a fondo proprio la civiltà e la cultura greche ritenendole depositarie di un sapere universale ed eterno, quindi senza tempo, senza storia, ed è ciò che riteniamo anche noi. La Storia riguarda le forme, gli aspetti esteriori, ma il "messaggio" o principio contenuto nelle autentiche manifestazioni artistiche non è soggetto a mutamenti col passare del tempo. Come i greci, gli umanisti volevano creare una sorta di unificazione di diverse espressioni artistiche (poesia, danza, recitazione, teatro, musica, ecc.), e tale principio fu poi anche alla base degli ideali di Giuseppe Verdi e Richard Wagner, che scrissero in proposito, ma il cui messaggio è andato pressoché disperso o mal interpretato. Alcuni poeti e musicisti del Rinascimento hanno lasciato interessantissimi scritti a proposito di cosa intendevano per teatro musicale, ovvero melodramma o opera, e il dettato in proposito sembra di una chiarezza e una semplicità sconcertante, ma così come a noi sembra semplice il principio su cui si basa il grande canto artistico, ma che viene sistematicamente mal interpretato, distorto, equivocato persino da chi se ne dichiara studioso, anche quel messaggio è destinato a rimanere incompreso o, peggio, mal compreso, interpretato a comodo, intellettualisticamente e non coscientemente. L'oggetto fondamentale su cui si basa la "rivoluzione" musicale cinquecentesca, richiamando i greci, era la parola (Giulio Caccini: "...quella maniera cotanto lodata da Platone et altri filosofi, che affermarono la musica altro non essere che la favella e il ritmo et il suono per ultimo, e non per lo contrario, a volere che ella possa penetrare nell'altrui intelletto e fare quei mirabili effetti che ammirano gli scrittori, e che non potevano farsi per il contrappunto nelle moderne musiche"). Non che non fosse importante prima (pensiamo al cosiddetto canto "gregoriano", su cui in fondo si basa tutta l'evoluzione musicale occidentale), ma le forme musicali che dal gregoriano si erano evolute, per lo più esteriormente, avevano finito se non per cancellare, ridurre la parola a "serva" della musica. Per quanto ci si possa adoprare, in tutta la polifonia fino a Monteverdi il dominio rimane più favorevole ai movimenti contrappuntistici e armonici che non alla poesia. In campo sacro con Palestrina già era stata fatta una "riforma" perché le matematiche - quindi asettiche - combinazioni delle diverse linee canore, rendevano assai difficile comprendere il testo, e quindi si era arrivati alla necessità di una maggiore omoritmia e all'uso più sobrio dei contrappunti, in modo che, pur dalle diverse voci, il senso del testo potesse emergere. Lo sviluppo nella qualità degli strumenti musicali, e quindi il loro uso (e la perizia degli strumentisti), rendeva sempre più possibile e interessante l'unione di questi con le voci, permettendo perciò la nascita di quella "monodia", cioè una sola linea di canto, con accompagnamento. La mancanza di parole da parte degli strumenti, che dal punto di vista della comprensione nella polifonia era il fattore più disturbante, permetteva quindi finalmente il risalto pieno e completo, diremmo anche facile, del testo. Questo però diventa un nuovo punto di partenza, perché il disvelarsi della parola, porta anche a riconoscerne il potenziale. Per chi ha una certa idea del canto, rumoroso, rimbombante, il canto sulla parola può rivelarsi a tutta prima "povero", e questa è la grande trappola! Pensando che la parola renda il suono poco sonoro, si va a 'cercare' (questa è la parola da incriminare) cosa può rendere il canto più ricco e importante, e quindi ecco che si va a creare il timbro in gola, lo si stringe e lo si manipola con la muscolatura faringea, ecc. Al contrario, la parola esige pura sonorità, gola ampia e rilassata, fiato dosato. Questa condizione è la parola stessa a produrla, ma...! il ma è legato solo e semplicemente a COME si pronuncia. Quando si canta, si pensa forse anche a pronunciare, ma questa pronuncia è sempre "serva" del suono, cioè è un qualcosa che lontanamente può ascriversi al "cantar parlando" che Monteverdi citava a proposito del "genere rappresentativo" (intermedi e musica sacra) in contrapposizione al "recitar [o parlar] cantando" che coniugava, invece, con lo "stile rappresentativo", cioè l'opera (quella che prese il nome di "seconda pratica"). La differenza è enorme, perché il recitar cantando prende spunto e origine musicale dalla parola, cioè essa non è solo artefice degli affetti, ovvero di tutte quelle espressioni musicali utili a dar senso o significato espressivo ed emotivo alla parola (da cui i tre 'affetti' [o figure retoriche] principali: Ira (stile concitato), Temperanza (stile molle) & Humiltà o supplicazione (stile temperato)) ma anche il ritmo, il tempo. Ciò che solo pochi possono comprendere e sapere, è che la parola ha in sé un potenziale che va molto oltre gli aspetti semantici espressivi ed emotivi, perché arriva fino agli aspetti fisiologici ed anatomici. Qualcuno penserà che è logico e banale questo assunto, visto che l'articolazione della parola coinvolge l'anatomia e di conseguenza la fisiologia degli apparati. Ma questa banalità fa dire e pensare ai più che però quando si canta la parola appare piccola, povera, priva di intensità e gagliardia, ma ecco la contraddizione! La parola, e solo essa, è in grado di scatenare tutto il potenziale vocale di un essere umano. Quando improvvisamente il 'recitar' o 'parlar' si uniscono in una simbiosi perfetta col 'cantando', cioè con la melodia, avviene quel fenomeno, che Husserl definisce "trascendenza", cioè trasformazione ed elevazione ad un livello diverso, che è quello artistico, unificazione di due stati solo apparentemente diversi (il parlare e il cantare, oppure la parola e il suono) in una condizione unica e perfetta. Chi ascolta si trova anch'esso coinvolto in uno stato particolare, perché non sentirà più il "suono" vocale e, più o meno, delle parole, ma sentirà realmente un fraseggiare, un dire un testo arricchito, riempito, sostenuto da una linea melodica che ne esalta il contenuto. Questa è l'Arte senza tempo, è l'unica e indifettibile possibilità di cantare qualunque e qualsivoglia genere e stile musicale, ovviamente gestendo quegli aspetti formali ed estetici tipici di quel genere e dell'epoca cui appartengono. Chi pensa che il recitar cantando sia stato un fenomeno storico limitato nel tempo e nelle possibilità, non ha capito niente dell'Arte del canto, ed è come se dicesse che il Mosè o il David di Michelangelo, o un qualunque altro grande capolavoro Greco o Rinascimentale, sono "vecchi", "superati", "legati al loro tempo". Mi fermo qui, ma conto di fare almeno un altro post su argomenti correlati, che ritengo piuttosto basilari nell'ottica della nostra scuola.

giovedì, maggio 17, 2012

Annotazioni storico-stilistiche

La nascita del melodramma coincide anche col fiorire dello stile Barocco, e le influenze non possono non manifestarsi anche in questo nuovo genere artistico. Il canto fiorito, parallelamente allo stile architettonico e visuale in genere, esalta la capacità di stupire, e quindi non solo diventa il regno del canto di virtuosismo, ma tutto l'apparato teatrale si sviluppa in modo straordinario, perché l'aspetto scenico e meccanico diventano un immenso laboratorio di creatività e ingegno. Pare che siano state inventate macchine formidabili per dare al pubblico l'illusione di situazioni di estrema meraviglia, qualcosa che potremmo forse paragonare al cinema 3D, ma forse anche più entusiasmante perché realizzato mediante macchinari e situazioni concrete e presenti sul posto (compresi gli incidenti) che dovettero emozionare fino all'esasperazione i primi spettatori. Tutto il lavoro tendeva a questo obiettivo: i soggetti non potevano essere comuni, quindi nessuna storia realmente accaduta o verosimile, ma tutto epicheggiante e immaginifico. L'aspetto vocale, quindi non baritoni o mezzosoprani, la cui voce centrale è troppo vicina a quella comune, ma soprani e bassi in particolare, che possono spingersi agli estremi limiti della gamma vocale umana (meglio ancora, poco dopo, coi castrati, che potevano dispiegare un canto del tutto "astratto" in quanto né del tutto maschile né del tutto femminile), e accanto al parlato-recitato, la fioritura, quindi l' "artifizio" musicale, ricchezza di pochi artisti sommi, e quindi tutto il lavoro scenografico. Anche gli strumenti vanno nella stessa direzione fantastica, infatti, grazie ai continui miglioramenti tecnici e tecnologici, alcuni di essi possono competere con il virtuosismo dei cantanti (come si sente proprio nell'aria "possente spirto" dell'Orfeo). Questo canto può essere definito, quindi, figurato, in quanto il ruolo significante della parola era affidato all'agilità, alla fioritura, alla diminuzione, e quindi all'ampia gamma di figure presenti nell'antologia belcantistica che sono cambiati e diminuiti nel corso del tempo, e di cui solo pochi sono rimasti stabilmente nell'uso fino al termine dell'800, che sono: innanzi tutto il trillo, ancora utilizzato persino nel 900, l'acciaccatura, l'appoggiatura, il gruppetto, oltre ovviamente a scale e arpeggi, che sono anche normali ed essenziali aspetti di base della grammatica musicale. Se si entra nello specifico dei diversi segni di abbellimento, si entra anche in un mondo strabiliante e quasi magico! Per noi oggi è difficile pensare a quanti diversi tipi di trillo possano esistere, mentre ai tempi di Farinelli pare ne esistessero qualcosa come 25! Si tratta non tanto di una tipologia diversa dell'esecuzione del trillo, di cui sono esistite poi solo due o tre diverse varianti, ma di cosa poteva succedere nel corso dell'esecuzione: dalla preparazione e risoluzione, innanzi tutto, poi delle dinamiche, ai portamenti (faccio persino fatica a immaginare cosa potesse essere - ne parla solo Tosi - un trillo su un portamento di suono!!!), alle messe di voce, alle riprese con variazioni (è difficile da spiegare a parole, funziona meglio l'esempio grafico, comunque si attacca il trillo, poi si fa una rapida fioritura, si riprende il trillo, si fa una seconda fioritura uguale o diversa, ecc.), alle scale trillate, ai ritmi puntati... insomma, un arcobaleno di colori e virtuosismi meravigliosi, che non potevano e non dovevano essere usati indiscriminatamente, pena severe critiche, ma al punto giusto, cioè dove il testo lo ammetteva, e la competizione era in parte sulla bravura funambolica di emettere tali virtuosismi impeccabilmente e con lunghi, lunghissimi fiati, ma soprattutto riuscendo a far provare profondamente agli spettatori quei sentimenti, quelle emozioni legate al momento drammatico. Credo siano tanti a pensare che potesse trattarsi di un'arte ingenua e che quel modo di accentare e colorire la parola sia lontano da noi, ma non è vero! Cantando alcuni madrigali di Monteverdi, anche senza tutto l'apparato belcantistico, già ho avuto l'opportunità di provare delle emozioni vive, palpabili, come non accade di certo con le urla, i singhiozzi e i sospironi veristici, che nel miglior dei casi possono farti provare qualche brivido a pelle, ma poco di più, e che spariscono in fretta. Posso dire con sincerità che pianto, riso, malinconia, tristezza, ecc., grazie a una scrittura musicale di cui è oggi davvero difficile penetrare il mistero, sembrano emergere dal proprio animo come se una forza irresistibile le attraesse fuori. Purtroppo il mondo dell'opera è molto diviso tra i cosiddetti melomani che si concentrano quasi unicamente sul repertorio ottocentesco, e gli altri, che ritengono troppo difficile, o noiosa la produzione precedente. Mi rivolgo a loro perché provino, con un po' di buona volontà, ad ascoltare alcune opere soprattutto del primo periodo, poi qualcosa anche di Vivaldi, Haendel, ecc., per cercare anche di appropriarsi di una maggiore prospettiva sulle possibilità espressive e comunicative della musica e del canto. Dopo tale "cura", forse anche l'ascolto dell'opera romantica e naturalista potrà portare a nuove e interessanti riscoperte.

martedì, maggio 15, 2012

Il cantar fiorito

Proseguendo nella descrizione degli elementi legati all'agilità, senza entrare troppo nei dettagli, faccio qualche rapida escursione terminologica e storica.
Si parla di canto "fiorito", cioè ricco di ornamentazioni di vario tipo, soprattutto nella musica del Seicento, quindi ai primi albori del melodramma e durante la fase di diffusione seguita ai grandi successi. Come credo sia noto, alla fine del '500 la forma musicale più in voga era il Madrigale; da una stesura polifonica, cioè a più voci, si passò rapidamente a una composizione monodica, cioè dove solo una voce eseguiva il canto. Già in alcune composizioni polifoniche si era manifestata una sorta di supremazia di una voce rispetto alle altre, e una estrema semplificazione del tessuto polifonico, quindi una sostituzione delle armonie delle voci sottostanti con strumenti. I testi si facevano sempre più articolati e complessi, e si giunse quindi alla nascita di lavori basati non più su poesie, più o meno lunghe, ma su drammi interi. Già nelle forme monodiche cinquecentesche, si era manifestata una caratteristica musicale che prende il nome di "diminuzione", e consiste nell'articolare le note lunghe (longhe, brevi, semibrevi) in un insieme di note di minor valore (semiminime, crome..., da qui il termine diminuire) con lo scopo di variare e "fiorire" per l'appunto la composizione. La fioritura non era un disegno casuale, ma non era nemmeno una imposizione definita dal compositore. Dobbiamo ricordare che questo periodo di transizione dalla monodia al melodramma prende il nome di "recitar cantando", perché, come espresse mirabilmente Claudio Monteverdi, la parola era regina della composizione, e la musica "serva". Non è una dichiarazione di secondarietà, in realtà, ma una osservazione molto acuta, che si comprende particolarmente bene quando si cantano - più che nell'ascolto, se non di esecuzione mirabile - molti madrigali di quel periodo, in particolare di Monteverdi. La parola però, per quanto "recitata", non poteva e non doveva essere mossa con l'espressività comune, che era ritenuta volgare e superficiale, ma grazie agli "artifici" musicali, cioè per l'appunto, le diminuzioni, le cadenze, le fioriture. Grazie a questi emergevano con maggior enfasi e profondità, gli "affetti" insiti nella parola stessa. Insomma, la musica, secondo questa concezione, riesce a comunicare gli stati più intimi e profondi dell'animo umano, cosa che la semplice parola non è in grado di fare, ma per poter far questo è necessario l'apporto del cantore. Deve essere lui, grazie al sommo studio, a fiorire con quei sentimenti dettati dal testo, a trovare - pur in un "catalogo" abbastanza condiviso - quelle fioriture che possano comunicare lo stato emotivo del personaggio. Credo sia opportuno, per chi non ha dimestichezza con la musica di questo periodo, postare qualche esempio; metterò pertanto il famoso "possente spirto", tratto proprio dall'Orfeo di Monteverdi, dove il protagonista, sceso agli inferi per cercare di riportare in vita la sua amata Euridice, morta per essere stata morsa da un serpente il giorno delle nozze, si imbatte nel traghettatore Caronte, che gli vieta l'ingresso. Egli allora intona questo canto ricco di fioriture di ogni genere per cercare di incantarlo e impietosirlo.
Possente spirto e formidabil nume,
senza cui far passaggio a l'altra riva
alma da corpo sciolta in van presume,
non viv'io no, che poi di vita è priva
mia cara sposa, il cor non è più meco,
e senza cor com'esser può ch'io viva?

Posto anche la versione di Lajos Kozma che mi pare migliore, e parliamo del 1968, con N. Harnoncourt che riprende per la prima volta lo strumentale antico.

sabato, maggio 12, 2012

Seconde considerazioni...

Il mondo del belcantismo, dell'agilità o coloratura, è davvero immenso; questo non è un trattato, sono posts isolati e quindi non posso dare una reale continuità agli interventi, che comunque devo inserire con un minimo di progressività. C'è tutto un discorso relativo alla Storia del belcanto che non è certo di poco conto, e che richiede attenzione da parte di chi vi si dedica, anche se potremmo tagliare corto dicendo che è un campo specialistico e che quindi merita approfondimenti a parte che non è il caso trovino posto in un blog come questo, più indirizzato a consigli e riflessioni sull'educazione vocale. Comunque qualche accenno lo faremo anche su questo argomento.
Mi sono appena soffermato sull'agilità legata, accennando agli esercizi sulle scalette. In fondo questi esercizi sono abbastanza comuni nella normale vocalizzazione, e possiamo dire lo stesso sugli arpeggi, perlomeno quelli fondamentali, prima di tre note (su una quinta) poi sull'ottava e anche sulla decima. Ho già anche accennato al cromatismo, che dovrà partire da tre suoni (es: do,do#,re), e poi proseguire fino a scale d'ottava. Ma infine si dovrà arrivare alle figurazioni più articolate e complesse, anche musicalmente, per irrobustire il senso dell'intonazione e della musicalità. Esercizi in merito se ne trovano a josa nei trattati, a cominciare dal Garcia, poi ci sono ottimi metodi di vocalizzazione, come il Concone, il Panofka, ecc. che in genere, però, puntano più sul melodico. In questo senso la parte avanzata del Vaccaj è più consona al bisogno. Molto importanti risultano i salti ampi, quinta, sesta, ma soprattutto settima, ottava, nona e decima, e soprattutto legata e in particolar modo discendente. Meglio ancora se doppia, cioè, ad es.: do2-do3-do2, re2-re3-re2, ecc. Sarà conveniente iniziare dal salto semplice, solo ascendente o solo discendente, e poi, una volta individuati e risolti, almeno sostanzialmente, i problemi di emissione, raddoppiarlo. In genere nei salti ampi, che trovo siano piuttosto utili didatticamente, l'allievo è portato, psicologicamente, a "portar su" anche il fiato, quindi diaframma e laringe, ed esagerare il volume. Ci vorranno non moltissimi esercizi, sempre dietro l'esempio dell'insegnante, per far notare che non ci deve essere quel dinamismo interno, ma una sorta di staticità, durante il salto, e l'aumento di intensità, specie nella zona centrale, sarà molto più contenuto di quanto immagini. Altra cosa importante è che nel passaggio da una nota all'altra non ci debbano essere, oltre alle già più volte richiamate "H", anche altri "rumori", quali schiocchi, singhiozzini, lamenti che facciano presupporre un'attività non fluida e continuativa dell'emissione. Sarà buona pratica anche l'eseguire, propedeuticamente, l'esercizio con portamenti leggeri; anzi, sarà bene ricordare che il portamento di suono è come virtualmente - sotto traccia - sempre presente nel legato, perché è l'unico tipo di emissione che può indicare con precisione la quantità di fiato e di impegno che diversifica un suono da un altro, specie nei salti lunghi. Nei salti discendenti ci possono essere difetti di altro genere: spesso prima di scendere gli allievi interrompono il suono, fanno piccole apnee, oppure tendono a portarlo indietro, ad abbandonarlo. Qui vale sempre il consiglio di "specare fiato", "alitare", e anche portare il suono, finché le cose non miglioreranno. Un difetto molto diffuso, nei salti discendenti, anche piccoli, è quello di dare forti accenti portando il suono indietro, anche sulla glottide. Qui bisogna aver pazienza e insistere perché si ammorbidisca il passaggio, sempre ben legato. E' un difetto generato puramente dalla psicologia, all'inconscio, non ci sono particolari ragioni perché il suono non esca corretto, ma il "cambio di marcia", cioè il fatto di "arretrare", discendere, dà sempre l'illusione che il suono non stia più su, cada, e quindi, invece di continuare ad alimentarlo, lo si blocca, lo si accenta esageratamente, rendendolo di fatto difettoso. Ci vorrà tempo ma si aggiusterà. Quando gli allievi presentano una accesa propensione a rimarcare questo difetto, sarà conveniente lavorare preferibilmente su esercizi discendenti fin dall'inizio delle lezioni.
Un capitolo particolare, e piuttosto difficile, è rappresentato dai suoni legati e accentati (quelli in sincope, ad es.). La tendenza potrebbe essere quella di farli staccati, ma se la scrittura è chiaramente di suono legato-accentato, lo staccarli sarebbe una semplificazione ingiustificata stilisticamente e musicalmente. La questione, come vedremo meglio quando parlerò di agilità staccata, riguarda il ... dove e come accentare! Sarà comune il dare l'accento premendo sulla laringe o con colpi di varia origine interna o bassa, ed è per questo che ho scritto, in apertura, che l'agilità vera e propria si deve studiare quando si ha già una buona qualità di emissione, perché se si ha già una discreta padronanza nel gestire il suono avanti, si potrà tentare anche di produrre questo tipo di agilità, altrimenti si potrebbe avere un regresso. Non ho scritto finora, ritenendolo abbastanza scontato, ma forse è meglio ribadirlo, che ogni esercizio è bene iniziarlo lento e poi velocizzarlo, senza esagerare, perché ci sarà sempre un punto, nell'accelerazione, che comporterà cambiamenti e l'insorgere di difetti, e quindi bisogna soffermarsi e mettere a posto. In questo senso bisogna osservare che quei difetti tornano a vantaggio dell'intera vocalità, nel senso che una volta esaminati e risolti (e saranno: intonazione nuovamente imprecisa, suoni poco chiari, scivolati, cambi di colore e di pronuncia, allargamenti...), saranno utilissimi da riportare nel lento, perché daranno molto più chiara all'allievo l'immagine del suono corretto, piccolo, chiaro, perfettamente pronunciato e avanti, staccato dal fisico. E' un po' lo stesso tipo di vantaggio che possono talora dare i salti verso il basso dove l'emissione è più corretta nella zona acuta. La cosa più difficile da sentire in un bel vocalizzare legato è lo stacco del suono dalla muscolarità faringea. Quasi sempre si sente quel "tira e molla" muscolare, che, una volta eliminato dà quella sensazione di suono sospeso per aria, senza corpo, apparentemente di grande facilità, e sonoro e veramente agile e piacevolissimo, in quanto anche veramente bello, perché purtroppo l'immaginario comune del suono squillante è quasi sempre un suono stretto che "rumoreggia" perché stride sulle pareti muscolari, segno che la gola non è realmente aperta. Cercherò di postare, in questi giorni, anche alcuni video-audio che possano esemplificare nel bene e nel male quanto ho cercato di descrivere sull'argomento.

venerdì, maggio 11, 2012

Prime considerazioni sull'agilità

Cominciamo a dire che l'agilità va suddivisa in due categorie: quella legata e quella staccata. La prima, quantunque non semplice, è decisamente meno problematica della seconda, che è quella realmente virtuosistica e richiedente studi lunghissimi e pazienza, volontà, e diciamo anche una certa predisposizione; non che si voglia dire che l'agilità è una prerogativa dei più dotati, ma che l'apprendimento stesso richiede una pazienza e una perseveranza nello studio che può facilmente far arrendere. In questo post mi occuperò della prima. Quando dico che è più semplice non intendo che lo sia realmente, e purtroppo per molti rappresenta un tipo di agilità sciatta, sbrodolata, imprecisa. L'agilità legata richiede una ottima intonazione di ogni nota presente nella figura, che deve essere precisa, riconoscibile e di giusto valore. La maggior parte dei cantanti degli anni 50 e 60 che hanno eseguito musiche che richiedevano agilità, hanno utilizzato principalmente il legato (ad esclusione dei soprani leggeri di coloratura), ma in modo alquanto rozzo e deficitario sotto diversi punti di vista. Molte agilità venivano "spianate", come suol dirsi, cioè si saltavano alcune note per rendere il tutto più lineare e quindi facile, e poi con portamenti, scivolamenti e altre negligenze stilistico-musicali, perché da un lato ai cantanti non interessava eseguire quelle figure in modo preciso (quasi fossero segno di "mollezza", di "decadenza"), abbandonandosi anche alla percezione che anche al pubblico non interessasse, il che è piuttosto vero. Un esempio per tutti: Manrico, il tenore protagonista del Trovatore di Verdi, ha praticamente un solo momento in cui dovrebbe sfoggiare agilità, ed è la celebre "pira", che conclude il terzo atto. Verdi non scrisse un brano per niente facile! La parola 'pira' è infatti una quartina di semicrome sulle note Mi-Fa-Mi-Fa (quindi in zona passaggio), lo stesso si ripete su 'foco', e così via. Voi provate ad ascoltare un po' di versioni dei grandi cantanti che vengono riconosciuti come storici, e vi accorgerete di come la pagina venga stravolta. Altro che stile e filologia! Ci si picca tanto a contestare il celebre Do, ma a mio avviso è molto più grave che non si eseguano, o si eseguano "un tanto al kilo" queste quartine (spesso piene di H). A volte, infatti, vengono eseguite male, a volte proprio saltate a piè pari! Ma anche i soprani, nonostante per loro si sia abbastanza mantenuta la tradizione del soprano coloratura, sono cadute spesso in plateali appiattimenti dell'agilità, specie da parte dei soprani lirici e drammatici nonché dei mezzosoprani, fino all'avvento della Callas, che ha fatto da apripista a tutto il rinnovamento belcantistico.
Come per tutto il canto, l'agilità non è ugualmente facile o difficile su tutte le vocali. Per iniziare conviene partire dalle vocali molto chiare, "i" ed "é", su scalette brevi. Fin dall'inizio, però, al fine di calibrare bene l'intonazione, sarà utile fare esercizi (prima lentamente) semitonali, perché nel rapporto orecchio-voce, si tenderà a farli crescere, e non poco, sia in salita che in discesa, e sono estremamente utili anche ai fini dell'educazione vocale e dell'orecchio. Mentre non si incontreranno particolari difficoltà poi a passare alle vocali O e U, risulterà quanto mai ostico il passaggio alla A, che comunque è vocale pochissimo utilizzata dai compositori, se non la si è prima "purificata". Ma, a questo proposito, bisogna anche dire che oggigiorno non è pensabile lo studiare l'agilità prima di aver messo bene le basi di una emissione perlomeno accettabile. La A eseguita senza quella "piccolezza" e leggerezza che permetta al suono di rimanere sul palato alveolare e sopra i denti superiori, non possiede le caratteristiche perché la si possa muovere agilmente, sarà impacciata e pesante, ed è proprio ciò che succedeva a molti cantanti soprattutto del periodo immediatamente successivo alla Seconda Guerra, che avevano dimenticato il repertorio belcantisco, si soffermavano quasi unicamente sulle opere tardoromantiche, tutte scritte quasi esclusivamente su ampie melodie lineari, che hanno comportato poi il "gonfiamento" e l'immobilità vocale che ha contagiato anche le generazioni successive, con il problema, però, che all'agilità si è tornati, ma volendo mantenere i valori estetici - diciamo così - veristi, le due cose non "quagliano". Allora a cosa abbiamo assistito e a cosa stiamo assistendo? Cantanti che per cercare la quadra, ingolano, e non poco, per cantare sia il repertorio romantico che quello di agilità; cantanti che vogliono tornare filologicamente al canto sei-settecentesco senza la minima coscienza vocale di cosa potesse essere davvero il canto a quel tempo, e quindi improvvisando, inventando ingenuamente e dilettantisticamente, impedendo alla voce di espandersi e di suonare forte come, a mio avviso, era nell'epoca d'oro del canto, checché se ne dica, a giustificazione di tecniche educative assurde, teoriche - ma all'atto pratico inutili - o ridicole. Il belcanto è in primo luogo il trionfo dell'agilità, ma se non si parte da una condizione di emissione leggera, chiara, avanti, piccola (che si otterrà dopo un certo periodo di tempo mediante quella disciplina che possa mettere il fisico in grado di sostenerla, pura, omogenea, fluida), non si arriverà mai a un risultato accettabile. Quando si vorrà cominciare a eseguire figurazioni di più ampie dimensioni (ambiti di ottava e decima), uscendo anche dall'ambito della scala semplice, si potrà far uso inizialmente anche di consonanti (ad es. ti-ri o te-re), con lo scopo di apprendere efficacemente la giusta intonazione e sentire la fluidità e la scorrevolezza delle vocali durante quei sillabati, che saranno poi riproposti subito dopo senza consonante. E' questo il lavoro che richiede più perseveranza e pazienza, non bisogna demordere, avere fretta o demotivarsi. Dopo qualche tempo di esercizi fatti bene, con semplicità e estrema attenzione a non lasciar passare troppe imprecisioni, ci si accorgerà di come quasi improvvisamente e magicamente la voce cominci a risultare agile e perlacea nelle varie note. Questo sarà il segnale per espandere l'ambito degli esercizi a figurazioni sempre più complesse e a tutte le vocali.
Non l'ho scritto in apertura, ritenendolo quasi ovvio, visto che è un precetto che riguarda tutta l'educazione vocale, ma penso sia sottinteso che non si deve mai permettere la fuoriuscita di alcuna "H" durante la vocalizzazione!

domenica, maggio 06, 2012

Una... belcantista?

Nell'accingermi ad affrontare il capitolo sull'agilità e virtuosismo, mi è tornato alla mente un personaggio piuttosto singolare nell'universo canoro degli anni passati, Nella Anfuso. Non è una cantante famosissima, almeno oggi, ma di lei si parla da almeno trent'anni, quasi sempre in termini negativi. Se aprite le poche esecuzioni presenti su youtube potrete vedere la mole di insulti e scherni rivolti al suo modo di cantare. Peraltro esiste un "fan club" a lei dedicato, e ho potuto constatare direttamente l'esistenza di alcuni agguerriti sostenitori del suo canto e dei suoi insegnamenti. In tutta onestà non ce la faccio a considerare le esecuzioni della Anfuso esemplari e specchio di un modo di cantare rappresentativo di un'epoca. Però devo dire che trovo questa persona molto colta e coerente. Ha fondato un'accademia, presieduta da un musicista di chiara fama qual è Arturo Sacchetti, e i suoi interventi scritti non denotano né saccenza né manipolazione delle fonti. Devo dire che sicuramente è una persona con una preparazione e un'idea sicuramente molto fondata di cos'era il belcanto o canto figurato, avendo concentrato la propria ricerca sia di tipo culturale sia musicale e tecnico vocale su quel periodo. Inserisco di seguito due suoi interventi:

... Il buon Rossini, che nel 1858 lamentava la mancanza di esecutori per Cimarosa e Bellini, scrive qualche anno dopo, nel 1864, al figlio dell’amico Nicola Vaccai: “nessuno più di lui ha saputo comporre per le voci umane. Se vivesse il povero amico sarebbe infelice di dover assistere all’invasione ognor crescente degli sforzi e degli urli”. Immaginare cosa farebbe il nostro Gioachino se vivesse oggi!

Giustamente il Leonesi poteva notare nel 1904: “Col sistema moderno, facendo doverose eccezioni, regna lo sforzo, anzi la violenza, ed in breve lo sfiatamento”.

Della “plurisecolare” emissione italiana e le sue conseguenti caratteristiche tecniche, sia espressive che virtuosistiche, era rimasto un tenue filone in via di estinzione, come aveva ben compreso il Leonesi: “Con l’unione dei registri, come l’intendeva l’antica scuola, era possibile ottenere dalla voce umana una grande espressione insieme alla purezza di suono e di intonazione, con il più lungo fiato possibile”.

Già nel 1861 era stato organizzato a Napoli un Congresso sulla situazione vocale in Italia: vi si affermò che, per rendere migliori le condizioni del Canto, bisognava attenersi, più che fosse possibile, alle antiche tradizioni e ne raccomandava il rispetto e l’osservanza.

Faccio notare che il 1861 è l’anno della unificazione, pur incompleta, dell’Italia. Ciò la dice lunga sulla sensibilità degli spiriti del tempo!

Alcuni decenni dopo il Leonesi ritorna sulla necessità del recupero per l’Italia della propria identità vocale:

“Ora che il pubblico è stanco di sentir gridare, a me pare che il momento sia propizio per porvi definitivamente riparo. Che un direttore di un Conservatorio o d’una Scuola musicale si prefigga lo scopo di far rispettare scrupolosamente, ora che sono spiegate, tutte le regole della grande scuola. E pochi anni basteranno a formare dei veri cantanti che serviranno poi come modello alle generazioni veggenti. Ho la convinzione d’aver fatto tutto quello che dipendeva da me. Il ministro dell’Istruzione Pubblica, che deve anche tutelare le belle arti in Italia, provveda al resto”.

Il problema della nostra epoca è la mancanza di conoscenza specifica dell’arte vocale: la situazione è veramente disastrosa, forse al punto di non ritorno. ...
Insomma, ancora una volta ci troviamo a condividere delle idee e dei punti di vista, ma sempre tutto su un piano di teorie e idee! Quante energie e quanto tempo non dico sprecato ma quantomeno poco e mal utilizzato! Ma purtroppo, da sempre, il campo dell'Arte è un campo di battaglia. Mi piacerebbe proprio sentire come coloro che si ritengono unici fondamentali possessori dei principi belcantistici, a singolar tenzone, cercherebbero di far valere le proprie idee. Beh, qualcuno, pur conoscendo a menadito metodi e trattati, credo sappia poco e niente di agilità e virtuosismi, tenendosene sempre lontano, altri, più correttamente, ne sanno parlare e sanno anche esemplificare con molta varietà, pur lasciando molti dubbi e direi anche perplessità sull'avere appreso i principi di emissione necessari.

Inserisco comunque ancora un piccolo estratto della cantante siciliana:

La lingua Toscana nella sua caratteristica sonora, con l’equilibrio delle risonanze dei due registri naturali di petto e di testa o falsetto, ha permesso, nel tempo e lentamente, la costruzione del perfetto strumento vocale ottenuto con la realizzazione della fusione totale dei due registri naturali e la conseguente creazione di un unico registro.

Ma è il platonismo fiorentino del secolo XV che pone le basi di ciò che uno studioso, Luigi Leonesi definisce, nel 1904, “una trovata di genio, miracolosa”, poiché è il recupero del predomino, totale e totalizzante della parola, nella sua essenza “sonora”, sul linguaggio musicale, che determina la costruzione, tutta italiana, dello strumento vocale perfetto.

È per questo motivo che solo l’Italia sviluppa una Vocalità, sia dal punto di vista espressivo che tecnico, che non ha eguali nella storia mondiale e che domina l’Europa musicale fino ai primi decenni del XIX secolo.

Ed è ancora il platonismo fiorentino del XV secolo che permette all’Italia la creazione di un patrimonio polifonico e monodico immenso ed unico per valore oltre alla realizzazione dello “stile rappresentativo” o “fiorentino” (che niente ha a che vedere con l’Opera che si sviluppa proprio in concomitanza con l’esaurirsi del platonismo, nella metà del Seicento).

Non potremmo sottoscrivere queste parole anche noi? Ed ecco, quindi, che ancora ci troviamo ad affermare che le parole sono solo un mezzo di orientamento, ma ancor più spesso di confusione e di inganno. Leggete sempre, molto e bene, ma poi rivolgetevi alle persone e cercate conferme nella pratica, nel rapporto vivo.

venerdì, maggio 04, 2012

Stili, modelli, metodi...

Prima di affrontare l'argomento agilità mi soffermo su una questione terminologica, che può avere o meno importanza ai fini dello studio del canto, ma è comunque spesso al centro di discussioni, e non solo da oggi. Il termine è "belcanto", che anche noi usiamo come emblema della nostra scuola. Col termine "belcanto" e "belcantismo" si inquadra, in primo luogo, un periodo storico legato al melodramma, e compreso tra la nascita stessa del teatro musicale operistico - inizio 600 - e la fine del 700, con l'"appendice" rossiniana di inizio '800 e le propaggini, perlopiù riservate ai ruoli femminili, bellin-donizettiane e ancora alcuni ruoli verdiani. La caratteristica pregnante del belcanto è l'agilità, il virtuosismo (quindi il belcanto si lega strettamente alla corrente artistica definita Barocco e quindi Neo-barocco con Rossini), e il termine fu utilizzato solo verso la fine dell'800. Fin qui la questione è prettamente descrittiva e storicistica. Più direttamente può interessarci l'aspetto stilistico, che investe l'esecutore nel momento in cui deve affrontare ruoli di quei periodi. Allora occorre avere anche una preparazione culturale, conoscere libri specialistici che abbiano indagato le fonti sia di natura musicale, quindi partiture autografe e copie, sia di natura metodologica: trattati, manuali, ecc. Quella che si definisce filologia. E' un campo aperto, un po' in tutti i settori della musica colta, e dove la polemica e la discussione vivace e anche aspra regna sovrana da almeno 30 anni. Certo, perché dalle fonti scritte non è facile risalire alla realtà del tempo, e anche ben sapessimo con sicurezza come e cosa si faceva, non è poi detto che sia giusto ripetere in quel modo. Il tempo cambia tante cose (ricordo, per analogia, le polemiche roventi legate al restauro dei dipinti della Cappella Sistina e altri affreschi rinascimentali), compresi i sensi umani (non sono pochi i musicisti che rifiutano l'adozione di strumenti d'epoca in quanto - secondo loro, ad esempio Claudio Scimone - la capacità udiditiva dell'uomo sarebbe scesa del 30%. Molti poi sono contrari agli strumenti antichi in quanto "stonati" (lo affermò più volte Karajan)). Nel nostro campo i dubbi si fanno ancora più rilevanti, perché non abbiamo neanche i modelli dell'epoca, come avviene per gli strumenti, ci possiamo fidare solo di quanto scritto. Tutta la diàtriba su come emettevano gli acuti i cantanti nel primo Ottocento... falsetto, falsettone... i contralti che diventano soprani... insomma, diciamo pure che ci sono teorie e deduzioni, più o meno serie e verosimili, ma la verità non la sappiamo e non la sapremo mai. Amen. Il compito di chi insegna canto è prima di tutto quello di fare in modo che si canti BENE! E cantare bene significa cantare senza sforzo, con omogenità, con padronanza di espressione e dinamica su tutta la gamma, essere in grado di cantare con ottima pronuncia e intonazione un repertorio idoneo (quindi soggettivamente individuato), senza lasciarsi blandire da ruoli più popolari e soddisfacenti sul piano personale, ma pericolosi per la salute vocale, avendo l'umiltà e il buon senso di rimanere sempre nei propri limiti di colore, di tessitura, di peso. Il riferirsi a un determinato metodo, a un determinato periodo, è cosa più da mercato ortofrutticolo che da seria scuola di canto. Così come è illusorio lo sbandierare il metodo dell'affondo come quello che ti farà cantare come Mario del Monaco, è altrettanto vuoto di significato il riferirsi al "belcanto" inteso come il "metodo" di Tosi, di Mancini, di Garcia o di chi altro volete voi. E' chiaro che questi trattati esistono, e sono preziosi, perché ci illustrano con poche parole un approccio al canto senza epoca, come dev'essere per ogni Arte che tale si possa definire, con un avvicinamento semplice, chiaro, lineare. In fondo è tutto qui; ciò che è avvenuto dopo la metà dell'800, ma soprattutto nel secondo 900, è stato un regresso, perché, per colpa soprattutto degli studi medico-scientifici, si è reso tutto più complicato e ricercato, perdendo invece l'uso dell'empirismo intuitivo, dell'esperienza, delle constatazioni visive e uditive. Non finirò mai di dire che lo studio del canto si basa su pochi concetti di estrema semplicità, anche se i soliti buontemponi che non sanno leggere ritengono che io affermi il contrario. La semplicità non è la mollezza, non è il lasciar andare, l'abbandonare, il non controllare, ma esattamente il contrario; però adesso non ripeterò la solfa. Quando si insegna canto e ci si rifà agli antichi trattati, si può solo contare su una visione complessiva; non si tratta infatti di metodi particolareggiati, non dicono (fortunatamente) con cosa cominciare, come proseguire, ma soprattutto non ci dicono, e non ci possono dire, tutti i possibili errori che si possono riscontrare e come correggerli. Del resto se si legge attentamente il Mancini, ci sono alcuni precetti che oggi ci appaiono persino incomprensibili e sicuramente inapplicabili. Un insegnante che facesse portare il registro di petto di un soprano sino al re e persino al mi4, sarebbe immediatamente considerato uno squilibrato e additato come pericoloso! Quindi ergersi a paladini del belcanto o ritenersi veri e autentici cultori dell'antico canto all'italiana ritenendo, fariseisticamente, di possedere i principi di quelle scuole solo avendo letto i trattati dell'epoca, ma depurandoli e filtrandoli opportunisticamente, prende un abbaglio. Il belcanto è prima di tutto buon canto. Se si è appresa la disciplina del canto a risonanza libera, se si è elevata ad arte vocale la funzione respiratoria, ci si potrà ritravare in molti principi e affermazioni contenuti in quegli antichi libri, ma si potranno anche trovare concetti anacronistici, poco opportuni da applicare, di rilievo storico, stilistico ma esclusivamente culturale, informativo. Se guardiamo i trattati strumentali del '600, troviamo che chi suonava le tastiere non eseguiva, a quel tempo, il passaggio del pollice come lo conosciamo oggi, ma si facevano movimenti molto più complessi e rigidi. So che qualche clavicembalista occasionalmente usa ancora qualcuna di quelle diteggiature, ma sono da ritenersi del tutto inappropriate e non permetterebbero l'esecuzione di molta letteratura successiva. Credo che situazioni analoghe siano presenti in trattati di altri strumenti. Il canto non si può paragonare alle tecniche strumentali, però non v'è dubbio che molti aspetti legati al gusto e all'estetica possano variare nel tempo, e quindi non essere più riproducibili. I trattati fino a metà Ottocento prendono come base di studio il canto "figurato", cioè che individua come elemento espressivo l'agilità. Se assumiamo questo concetto, non si dovrebbe o potrebbe cantare nessuna opera successiva che pone invece la parola, il timbro, il colore, la dinamica, quale elemento espressivo, e questo come si può coniugare con l'antico canto all'italiana, se preso alla lettera? Non si può, e dunque il concetto di belcanto, se lo si vuole legare a un modo pratico di cantare, deve ampliarsi ed estendersi, altrimenti diventa pretestuoso.
Per "sottrazione", noi riteniamo che si possa definire belcanto quell'approccio alla vocalità che si discosti da tutte le complicazioni muscolari e meccaniciste. Fine.
Percepire errori è una capacità estremamente sofisticata che il cervello acquisisce tramite l'orecchio, ma che seleziona in base alle esperienze (ciò che qualcuno individua come errore per altri può essere un pregio, dipende dal livello di conoscenza specifico acquisito). Ci sono (non da sempre, ma dopo la "cura" Celletti, cioè dopo che un giornalista si era messo a parlar di canto come se lo conoscesse personalmente) stuoli di appassionati d'opera che al termine di una esecuzione vocale danno sfogo alla loro presunta competenza, con tutto il vocabolario cellettiano ormai consolidato, segnalando il cantante senza passaggio di registro, quello col suono indietro, col suono nasale e via dicendo. Certo, esistono alcuni difetti evidenti e che si possono riconoscere con facilità, ma altri invece sono molto ingannevoli, e realmente non si possono distinguere se non se ne ha la coscienza (persino nell'intonazione molte persone, anche musicisti, prendono abbagli). Se io so cos'è un suono ingolato è perché l'ho emesso e lo posso emettere quando voglio; l'ho vissuto in una evoluzione da incosciente emissione a riconosciuto errore. Ogni volta che insegno mi immedesimo in chi canta, e provo le sue stesse sensazioni, e in questo modo so perfettamente quando un suono è avanti, indietro, in alto, in basso... ma anche molto di più! Mi rendo perfettamente conto di quando un allievo prova paura, prova senso di vuoto, quando non è soddisfatto, quando sente fatica e dove. Questa è la coscienza e l'arte dell'insegnamento. Mi posso immedesimare in alcune affermazioni di Tosi, di Mancini, di Lamperti di Garcia e persino di Lazaro, ma anche della Battaglia Damiani, di Juvarra o di Menicucci. Certo, perché, come ho scritto più volte, chiunque abbia esperienza e sa emettere anche solo QUALCHE buon suono, proverà delle sensazioni che cercherà di comunicare e nelle quali è possibile riconoscersi. Però questa è la trappola letale! Se con percorsi virtuosi, anche diversi tra loro, tre persone raggiungono un determinato buon risultato, potranno riconoscersi, incontrarsi, in una determinata sensazione; se però io, che possiedo quel certo buon risultato, cerco di far provare quella stessa sensazione a un mio allievo senza la disciplina che, unica, può portarmi a quel risultato, farò un buco nell'acqua gigantesco. Questo vale, lo ripeto ormai da anni, per i tanti che vorrebbero mandare la voce "in maschera", alta, nella nuca, nella calotta cranica, dietro agli occhi, negli zigomi, ecc ecc., ma vale anche per coloro che "cercano" (questo è il termine da incriminare) la voce a risonanza libera, che è ovviamente il non plus ultra, ma è un obiettivo, un obiettivo a lunghissimo termine, perché prima c'è la disciplina. Quando vediamo un grande pianista, come poteva essere B. Michelangeli o Rubinstein, che suona, noi vediamo una persona con una tranquillità e una immobilità (non rigidezza, si badi bene) strabilianti! Mani che sfiorano i tasti, dita che quasi non sembrano articolarsi, talmente fluidamente scorrono sui tasti per tutta l'estensione. Ma... forse si pensa che non abbiano dovuto passare giornate a disciplinare le loro mani, dita, braccia e corpo intero? E per cosa? le dita non sono "naturalmente" destinate a suonare? No, e la voce non è naturalmente destinata a cantare? No. Non c'è e non ci sarà mai un antropologo o uno scienziato serio che potrà affermarlo, mentre vedo seri studiosi che provano proprio il contrario: la laringe non è nata per cantare. Non lo affermo io, cercatelo su internet e troverete molti articoli di personaggi che con me e la mia scuola non hanno niente a che vedere. Tutti pazzi e ignoranti? Ma si legga, si studi, e si cerchino i perché e i percome. Non basta dire: non è così, e nemmeno "dimostramelo"; visto che c'è un'affermazione, piuttosto suffragata da studi, si provi a immaginare le conseguenze, o si cerchi di dimostrare il contrario, altrimenti si tratta di negare un dogma con un altro dogma, e non si va da nessuna parte. 

martedì, maggio 01, 2012

Propedeutica all'agilità

Per secoli la voce artistica è stata sinonimo di voce agile, capace di colorature iperboliche, funamboliche, fiati inesauribili, trilli perfetti, oltre che di eccellente pronuncia, significato sincero e profondo del testo. Quando si ascoltano le voci del passato, spesso si fanno erronei confronti, pensando che la patina falsa e coprente odierna sia il bello e il giusto, e non si coglie il puro, il semplice, il vero che il più delle volte emerge da quelle voci, a causa della opacità della coscienza di cantanti, insegnanti e cultori odierni. Già prima della metà dell'800 i maestri più importanti si lamentavano dell'impoverimento della scrittura vocale delle opere nuove e persino Mancini, quindi ancora nel '700, si doleva della scarsa attenzione degli insegnanti coevi verso alcune tecniche vocali, a partire dal trillo. Le agilità hanno avuto diverse epoche: il lungo periodo barocco, poi la crisi dovuta all'eccesso di agilità, più che altro fini a sé stesse, quindi una netta diminuzione dovuta anche all'emergere dell'opera buffa, poi nuovamente il breve momento di gloria rossiniano, e il lento declino fino al Verdi maturo. Sono in molti a pensare che il periodo post belcantistico, intendendo con questo il periodo dell'agilità e della coloratura, sia stato soppiantato, tra fine Ottocento e metà Novecento, da un'altra scuola di imposto vocale, ritenendo che ciò che serviva nel primo periodo risultava inadatto al secondo, partendo dal presupposto che il canto spianato necessitasse di più potenza, più rotondità e colore scuro. Queste cose sono in gran parte false e frutto di distorsione di pensiero e di seria comprensione del fenomeno vocale nella sua globalità. Se escludiamo il primo Seicento, dove effettivamente le orchestre erano piuttosto ridotte e i teatri di modeste dimensioni (e anche dotati di eccellente acustica, ma troppo facilmente infiammabili, ma il pubblico dotato di un livello uditivo migliore del nostro), non si può dire che dalla fine del '700 in avanti le cose siano poi cambiate così tanto. Verdi e Wagner, ma anche Catalani, Mascagni, Giordano e quant'altri - cosiddetti 'veristi' - scrissero opere nel secondo '800, con orchestre gigantesche e negli stessi teatri che frequentiamo ancor oggi, e i cantanti che eseguirono per la prima volta quelle opere, senza destar alcuno scandalo legato alla povertà vocale, provenivano dalle scuole del belcanto, erano capaci di agilità granitiche o perlacee, e anche di trilli di tutto rispetto. Quindi ogni teoria che voglia disgiungere le scuole di canto antico da quello più recente accampando teorie sulla sonorità della voce, sono del tutto destituite di fondamento, anzi, anzi, anzi! Noi siamo ad affermare l'esatto contrario, dove le scuole post belcantiste non basano le proprie teorie su nessun principio realmente artistico, ma esclusivamente di tipo ginnico-fisico-muscolare, escludendo proprio l'elemento fondamentale e principe della grande, perfetta emissione, cioè il fiato. Ma anche qui, capire cosa significa diventare "signori del proprio fiato", "virtuosi" della respirazione, è contesa spesso vuota, perché chi non lo sa non lo sa! Quante volte devo dire: i "se" non esistono. Pensare "prima" di fare, che una certa cosa non verrà, non sarà giusta, è solo un limite istintivo, perché il suono giusto non è conosciuto prima di essere emesso, e quando ciò avviene, pressoché tutti si meravigliano, perché accedono a qualcosa di ignoto e soprendente. Quanto sono inutili, eppure necessarie, le discussioni con quanti "credono" di conoscere la giusta emissione, eppure ne sono lontani anni luce, per quanto in buona fede e con giusto approccio. Allora una domanda-osservazione: le scuole di Tosi, Mancini, Garcia e Lamperti, basavano quasi tutta la loro attività sull'agilità, e molti (se non tutti) i loro consigli teorici avevano come obiettivo la capacità di emettere con invidiabile rapidità qualunque tipo di esercizio o vocalizzo o sillabazione; perché coloro che si rifanno a tali scuole evitano, trascurano tale principio basilare, e allo stesso tempo non considerano le necessità legate al canto romantico e tardo romantico, non significando, ciò, che occorre un'altra scuola, un altro "metodo" o "tecnica", tutt'altro, ma che bisogna anche completare o tenere di conto che i lunghi fraseggi piani, le intenzioni espressive, possono abbisognare di colori più scuri e intensità più accese. Questo non deve significare modificare le posizioni, le ampiezze, i principi di emissione, ma semplicemente allargare gli orizzonti. Ora partirò con uno o più post tesi ad analizzare il complesso ma affascinante, nonché fondamentale, mondo dell'agilità o coloratura.