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sabato, dicembre 31, 2011

I due strumenti

Credo che pochi studiosi si siano dedicati approfonditamente ad analizzare la peculiarità fisico-acustica della voce, cioè quella di essere uno strumento "doppio". Già nella relazione introduttiva al manuale di Garcia si evidenzia che la voce umana non corrisponde né ad uno strumento a corde né ad uno a fiato, sommando caratteristiche dell'uno e dell'altro. Bisogna considerare che questa tipologia presenta delle condizioni favorevoli ma anche delle "fragilità" per cui l'uso distorto può ritorcersi in una limitazione. Partiamo da una prima analisi, e consideriamo lo strumento a corde. La corda, per le sue caratteristiche, ha scarse possibilità di udibilità nell'ambiente, perché eccita molto limitatamente l'aria intorno (banda stretta) e quindi richiede un amplificatore, che è la cassa armonica. Per trasferire la vibrazione della corda alla cassa, occorre quello che i fisici chiamano "adattatore di impedenza", che nel caso del violino è il ponticello. Poi in questi strumenti c'è anche l'anima, che ha lo scopo di mettere in vibrazione parallelamente il fondo della cassa, facendo oscillare tutto il volume d'aria presente all'interno. Negli strumenti ad aria assimilabili a quello vocale, invece, abbiamo un tubo conico che sfoga verso la "campana", che possiamo paragonare alla bocca. A differenza degli strumenti a fiato, dove l'ancia o il bocchino sono fissi e rigidi e le note vengono prodotte mediante i fori, nella laringe le note vengono formate dalle modificazioni delle lamine glottiche. Mentre negli strumenti, sia a fiato che cordofoni, la cassa di risonanza è fissa, e l'Arte dei liutai, nei secoli, ha gradualmente elaborato una forma che permettese al range di ciascuno strumento di essere valorizzato senza esaltare troppo certe frequenze e svilirne altre, lo strumento umano permette un' "accordatura" mobile. Ciò significa che i movimenti oro-faringei, perlopiù spontanei, danno la possibilità ai suoni emessi di ottenere la più idonea amplificazione e valorizzazione degli armonici. A questo punto però arriviamo all'aspetto più incredibile della voce umana, e cioè, per l'appunto, l'amplificazione. In quello che il Garcia definiva (nella traduzione italiana) "apparecchio vocale", noi troviamo una quantità sbalorditiva e assai sofisticata di amplificazioni. La prima, di cui ho già detto, è quella della "campana", cioè un tubo conico (dalla laringe, stretta, alla bocca, larga). Il secondo è quello simile agli archi, cioè la proiezione sonora colpendo l'arco mandibolare in prossimità del palato alveolare, induce una trasmissione di vibrazione (adattatore di impedenza) che si comunica alle altre ossa del viso ma soprattutto alle masse d'aria contenute nelle cavità superiori, che, grazie anche a vibrazioni parallele (palato), oscillano anch'esse e producono arricchimento sonoro. Ma non è ancora finita. Abbiamo le lamine muscolari, ossee e cartilaginee che si dipartono dalla laringe stessa, sia verso lo scheletro superiore (osso ioide, soprattutto) che inferiore, inducendo ulteriori vibrazioni. Non dimentichiamo poi "i risuonatori di Helmholtz", che stanno alla base degli odierni subwoofer. In questo senso il volume toracico (alla faccia delle "consonanze" che qualcuno sbandiera) si comporta proprio come un risuonatore cavo a bocca stretta.
Al termine di questa esposizione, però, cosa ne abbiamo? Un'analisi che ci deve consentire di ottenere la massima efficienza con il minimo impegno. Sulla funzione del "ponticello" abbiamo già detto a sazietà. Ma ad esempio considerare l'aspetto "conico" e con la campana, tipico degli strumenti a fiato, è cosa poco meditata, ma allo stesso tempo occorre far sì che i due processi non collidano; se il fiato/suono si amplifica nel cono ed esce correttamente dalla bocca, ma il percorso non si indirizza principalmente all'arcata superiore, noi avremo solo un parziale utilizzo dei risuonatori. Se invece si cerca di mandare il suono nelle parti arretrate del palato, avremo una sensibile diminuzione degli armonici e dunque il cantante per aumentare l'intensità sarà costretto a spingere come un dannato. L'esaltazione della potenza può dare risalto alla componente toracica, per cui la voce potrà risultare più scura e potente, anche per la maggior ampiezza di vibrazione delle corde, però sarà voce faticosa e con scarsa espansione nell'ambiente, oltreché povera espressivamente. Chiudo qui, ma devo fare ancora un intervento sull'efficenza. Prossimamente.

giovedì, dicembre 29, 2011

I traditori

Una insegnante di canto, su fb, quindi piuttosto pubblicamente, esplicita il suo godimento per aver sentito cantar male un suo ex allievo "traditore". Sinceramente trovo questo un atto di narcisismo declassante. Credo appartenga alla natura umana, a quell'istinto (superio) che nel regno dell'Arte non dovrebbe esistere, nel senso che dovrebbe essere debellato dalla disciplina stessa con cui si intende raggiungere l'obiettivo artistico. Perché si parla di "traditori"? Dove starebbe il tradimento? Un allievo, per mille motivi, trova un altro insegnante, e vuol provare a frequentarlo. C'è in questo qualcosa di male? No. L'insegnante primo può rammaricarsi del fatto che l'allievo non abbia "capito" quella scuola, e sia andato via prima di aver ottenuto i risultati sperati. Ebbene? Aveva fretta, e quindi non possedeva la dote della pazienza, indispensabile per frequentare quella scuola, quindi ne ha cercata una più "rapida". Otterrà gli stessi risultati? Chi lo sa? probabilmente no, perché la fretta è nemica dell'Arte, ma chi può dirlo. E poi bisogna vedere che tipo di risultato interessa a quell'allievo. Insomma, è possibile che il primo insegnante sia valido ma l'allievo no, quindi il primo non ha perso niente (a meno che non la si metta puramente sul lato economico). Può darsi che l'insegnante non sia valido ma l'allievo sì, l'ha capito e se n'è andato, quindi al primo brucia il pensiero di non essere considerato valido. Ma se lui crede di esserlo, in buona fede, non deve farsene un cruccio; se invece intimamente ha dei dubbi, è questione puramente di narcisismo, e allora è giusto così! Ci può anche essere la situazione in cui ci sia un allievo buono con l'insegnante buono ma per qualche motivo non si capiscano. Niente di male, se sono persone intelligenti troveranno magari anche la capacità di ritrovarsi. Ogni buon insegnante lascia la porta aperta ai propri ex allievi, e non nutre nei loro confronti alcun astio per averlo lasciato. Questo sentimento, a meno che non ci sia stata proprio una rottura violenta con grave mancanza di rispetto, non deve esistere, anzi sarebbe corretto che il primo insegnante accogliesse favorevolmente che un ex allievo riesca a far carriera, anche se ha trovato un'altra scuola, un'altra strada. Fondamentalmente alla base di questo riscontro una ignoranza emotiva mortificante.

sabato, dicembre 17, 2011

Le acca e il portamento

Specialmente in chi è all'inizio dello studio del canto, ma purtroppo spesso anche in cantanti professionisti, si percepisce la presenza anche massiccia di "H", cioè leggere espirazioni, tra vocali e consonanti. Sono strategie dell'istinto per abbassare il peso dell'aria e farlo uscire. Molte volte sono così nascoste da essere percepite solo da orecchie molto allenate, ed è un fatto importante, perché se non si debellano rischiano di impedire il passaggio ad un canto veramente di qualità. La presenza di queste bolle d'aria crea anche un altro problema, oltre a un appoggio imperfetto: il ricorso ad accenti troppo marcati e sostanzialmente "affondanti". Mi spiego meglio. Se si fa un esercizio tipo: "se se se se..." su una o più note, e tra la S e la E c'è una perdita di appoggio, la E subirà una forte accentazione e cadrà sulla laringe. Quindi è indispensabile che la "scia" della S coinvolga anche la E, in questo caso, e si deve verificare che non ci sia il minimo "singhiozzo" o interruzione di suono tra consonante e vocale. Il problema può essere più difficoltoso da sradicare nel canto vero e proprio o in esercizi più articolati e complessi. A questo punto il ricorso al portamento può essere molto efficace. Il portamento, una volta molto studiato, è oggi quasi abbandonato, e viene osteggiato del tutto in esecuzione. Può essere discutibile, ma non approvo questa "guerra", secondo me in molto repertorio può avere la sua ragion d'essere (del resto se la facevano i cantanti del tempo in cui nascevano le opere, non si comprende perché noi oggi dovremmo considerarlo antistilistico). Comunque ha una importanza didattica non indifferente. Devo dire che è una delle poche cose che approvo in "tecniche" recenti come il vc, per quanto non so bene come e perché venga utilizzato. La cosiddetta "sirena" è un esercizio utile e interessante, specie a livello psicologico, perché permette di capire (e la cosa è particolarmente utile nelle scale e arpeggi discendenti) che il fiato va consumato, e dunque non bisogna MAI interromperlo o segmentarlo o emetterlo con disuguaglianza. Se voi ascoltate attentamente i grandi cantanti, specie del passato, vi accorgerete che la fludità di alimentazione, diciamo l'alitare o il soffiare, è sempre costante. Se ascoltate Miguel Fleta, che era particolarmente "fissato" con le mezzevoci e i pianissimi, potrete sentire come queste sono omogenee, pure e plastiche, senza scalini, senza colpi, senza disuguaglianze, e dunque sentirete anche come alla base di tutto ci sia una grande padronanza del fiato, che è ben appoggiato, e non sfugge.

mercoledì, dicembre 14, 2011

La stecca

Uno dei termini più noti in campo lirico fin dai bei tempi andati, è quello di "stecca" (ben lontano dalle altrettanto note stecche date sottobanco a politici corrotti...). Con stecca si intende generalmente una rottura improvvisa e plateale di una nota tenuta o nel momento del suo attacco, eventualmente anche il blocco nel momento dell'attacco. Non rientra nel capitolo delle stecche la stonatura. Tutte le classi vocali possono andare incontro a questo spiacevole incidente, ma è particolarmente esposto il tenore. Ci sono stati alcuni cantanti piuttosto celebri per grandi successi e grandi stecche. Se è vero che il canto esemplare preserva il cantante da sbagli e incidenti (non risulta che calibri quali Gigli, Pertile o Schipa abbiano mai steccato), è pur vero che se si sta "in mezzo al guado", il rischio di incidenti è assai più probabile rispetto magari a cantanti con emissioni più scadenti, ma che riescono ad avere un controllo sul suono più sicuro. Insomma, un ingolato, per quanto male canti, è più al sicuro di un cantante con il suono più avanti ma non così ben proiettato e sul fiato da permettere un controllo e una pulizia immacolata. Insomma, da un lato c'è il controllo muscolare, pernicioso per la pessima qualità e le scadenti possibilità espressive e di verità fonica, ma che permette una gestione, per quanto rozza, del suono; dall'altra il canto totalmente sul fiato, il cui controllo è praticamente mentale. Se non si arriva a questo obiettivo, la via di mezzo rischia di essere un canto migliore di quello di gola, ma assai più rischioso e meno omogeneo. Quando si intraprende il viaggio verso un alto obiettivo, bisogna mettersi nelle condizioni di non interrompersi a mezza strada...
Poi naturalmente ci sono condizioni ineludibili. La presenza di catarro sulle corde può creare seri inconvenienti, anche se l'esperienza permette di superarlo.
Il cantante che spinge va fatalmente incontro alla stecca. La pressione indebita sulle corde può comportare la rottura del suono. Ecco che l'avvertimento di certi insegnanti che si può imparare anche dalla stecca, trova spiegazione nel fatto che a un certo punto ci si rende conto che per evitarla è necessario smettere di spingere, e allora, forse, si può anche imparare a dosare correttamente il fiato.

Lo scalino

Altra cosa che mi salta all'occhio scorrendo il trattato di Garcia è la sua raccomandazione a NON evitare lo "scalino" che si può avvertire tra petto e falsetto nelle prime fasi educative. Con scalino si intende una sorta di "singhiozzo", cioè un cambio repentino e evidente della sonorità. E' anche ciò che, volutamente, fanno i tirolesi con lo yodel (o jodler). Segnalo, a questo proposito, che un gran numero di cantanti (soprattutto donne) del primo '900 di cui esistono registrazioni, si caratterizzano per la presenza di questo gradino. Perché Garcia scrive di non evitare questo effetto, che risulta non molto gradevole? La risposta l'ho trovata in alcune cantanti già con studio alle spalle (lapsus incoscio, stavo scrivendo stalle...) le quali apparentemente avevano un centro omogeneo. La realtà è che questa ricercata omogeneità nascondeva due possibili difetti: o l'utilizzo del petto in forma leggera oltre il fa, che dà luogo a problemi enormi, oppure l'ingolamento del falsetto (quest'ultimo molto più diffuso e frequente anche in cantanti in carriera). Dunque, come abbiamo sempre raccomandato, nei primi tempi di studio è bene che i due registri di petto e falsetto nelle donne è bene che siano educati separatamente e molto attentamente, senza aver fretta di congiungerli (il famigerato e inesistente "misto") e omogeneizzarli. Quello dell'omogeneizzazione può essere un obiettivo falso e pericoloso, e mi pare attualmente causa di molti problemi vocali. Quindi sono d'accordo con Garcia, che se nei primi tempi di studio si verificano anche "scalini", non è un problema, anzi è un modo per prendere coscienza di come suonano i due registri. Quando il fiato si educherà alla corretta alimentazione delle corde nei due atteggiamenti con la necessaria gradualità, la questione dell'omogeneità si risolverà da sé. Diverso può essere il problema del falsetto leggero tenuto "alto", e che dà la sensazione di avere un boccone in gola. Questo è dovuto a un leggero sollevamento della laringe, che se non nuoce particolarmente all'impostazione vocale, essendo molto in basso, peraltro risulta fastidioso e quindi corrompe l'esemplarità del canto. Questo è in genere dovuto all'idea che il falsetto essendo molto leggero, esile, vada tenuto più "alto" rispetto al petto. Questo è sbagliato. Il parlato, e quindi il canto corretto, anche nel falsetto si posiziona alla stessa altezza, e quindi può essere avvertito più "basso" di quanto si creda. Non è affatto un problema, ma solo una falsa idea preconcetta, che va debellata. Ho parlato di donne perché è una questione molto più evidente e frequente, e anche in relazione a quanto ho detto a proposito del colore oscuro. E' però possibile, ovviamente, anche negli uomini. Nel Garcia si trova poi un avvertimento di difficile interpretazione. Egli dice che non bisogna indebolire nessuno dei due registri. Se sono pienamente d'accordo col falsetto, ma teniamo presente che la maggior parte degli allievi non è in grado di dare molto peso a questo settore, resto un po' perplesso sul fare questo nel petto, considerando che nelle zone prossime al passaggio il peso è notevole e dunque si accentuerà parecchio lo scalino. E' vero che col tempo si andrà comunque a colmare, però il rischio di spingere è davvero ragguardevole. Forse è più un problema dei nostri tempi.

martedì, dicembre 13, 2011

Il lato oscuro

Nella relazione introduttiva al testo di Emanuel Garcia, si legge: "il primo giugno 1840 venne presentata dai signori Diday e Petrequin una Memoria il cui oggetto era lo studio fisiologico della voix sombrée, voce particolare che a quell'epoca era conosciuta in Francia soltanto da tre anni, importatavi dall'Italia da un celebre artista addetto al primario nostro teatro lirico". Dunque apprendiamo, non senza qualche perplessità, che nella prima metà dell'800 in Francia non si conosceva il colore oscuro, conosciuto, a quanto pare, invece in Italia perlomeno qualche tempo prima. Si pensava (riassumo) che il colore oscuro riguardasse il solo registro di petto, ma Garcia dimostrò potersi applicare anche al registro di falsetto. Sappiamo da altro scritto (che ora non ho sottomano, poi lo cercherò e posterò) che in questo stesso periodo la critica si scaglia contro alcuni cantanti la cui pronuncia risulta orribilmente storpiata. Sappiamo però anche che nasce il cosiddetto "do di petto", ovvero, tralasciando la nota querelle se fu veramente "di petto" o meno, il rinforzo del registro acuto, che secondo gli storici della vocalità fino a quel momento è da ritenere che fosse più un falsettone. L'argomento è spinoso e va affrontato con una certa attenzione. In primo luogo dobbiamo separare i concetti di suoni oscuri e canto oscuro. Lo spettro delle vocali va dalle chiarissime, "i" ed "é" stretta, alle scurissime, "ò" ed "u". Qui nulla può essere stato inventato. Sappiamo, inoltre, che grandi maestri del passato, come il Bernacchi, utilizzavano per lunghi periodi nelle loro sedute la vocale U come vocalizzo educativo, dunque il ricorso a suoni scuri era prassi normale anche in passato, e sinceramente non riuscirei a concepire il contrario. Il canto oscuro, invece, è un tipo di canto che ricorre, oltre che alle vocali naturalmente oscure, a vocali che potremmo definire "ibride", A, E ed I che si avvicinano come pronuncia alla O e alla U. Anche su questo occorre fare giusta informazione: un conto è la "intervocale", cioè una vocale "impura", a mezza strada tra due vocali, A ed O, O ed E, I ed U, ecc., un conto è la vocale oscura, che rimane pura ma con un' "ombra", una "rotondità" che incida sulla timbrica ma non sulla pronuncia. Questo riguarda l'educazione. Se io eseguo una vocale scura prima di aver appreso a pronunciare con estrema precisione la vocale nel suo colore originale (diciamo... naturale), considerando che il colore scuro incide sul "peso" del suono, sarà quasi inevitabile che esso vada "indietro", cioè si posizioni fatalmente nell'area gutturale-faringea. Pertanto è necessario educare la voce in color chiaro (utilizzando tutte le vocali, comprese quelle scure, ma su questo torneremo) e quindi, una volta che il fiato-diaframma, sarà sufficientemente allenato e "sganciato" dalle funzioni fisiologiche e valvolari, si potrà iniziare ad utilizzare il colore oscuro, vale a dire usare le vocali nella stessa posizione e ampiezza del color chiaro, ma con quell'arrotondamento che costituisce appunto la caratteristica timbrica di questo colore. Ripeto: il colore oscuro ha un peso maggiore di quello chiaro, pertanto è necessario che si sia educato il fiato e il diaframma a sostenere agevolmente quel peso, DOPODICHE' si potrà passare allo scuro, allenando ancora fiato e diaframma a sostenerlo. Solo così sarà possibile mantenere la posizione e proiezione del suono nell'ambiente con l'efficacia e la libertà indispensabile a un canto pienamente espressivo.
Si apre, a questo punto, un secondo argomento: il passaggio di registro. La cosa subito da notare è che il Garcia, nonostante fosse già un insegnante pratico di canto scuro, non propone quale soluzione al passaggio di registro l'oscuramento, ma si mantiene entro i canoni educativi, credo, del suo tempo, cioè l'allenamento alterno su petto e falsetto nelle note classiche della zona di passaggio che lui stesso con molta precisione indica. Dunque è evidente che il passaggio, ovvero l'utilizzo dei due registri è perfettamente possibile anche nel color chiaro (prima di quell'inizio '800 addirittura l'unico!), ed era utilizzato anche dal Garcia. Resta dunque da capire cosa è cambiato da quel tempo e quali consigli dare in proposito. Come ho più sopra indicato, non bisogna confondere il cantar chiaro con vocali chiare, per cui è da tener presente che effettuare il passaggio di registro durante un vocalizzo con la O mediante una U non rientra nella casistica del canto scuro, mentre lo sarebbe l'oscurare la O. Il problema però si può porre in alcuni allievi che non reggono una U a piena voce sul passaggio. Ma la problematica generale, però, sta su un altro punto, cioè che l'invito ad oscurare e dare più forza, rivelano una forte tendenza a spingere, comportando questo un aumento di pressione sottoglottica e quindi, in ultima analisi, una maggiore difficoltà a passare! Non per nulla si sente spesso di allievi tenori che passano su fa#3, sol e persino oltre! (e lo stesso dicasi di baritoni e bassi). In sostanza c'è un conflitto che va sanato prima di affrontare con più alta probabilità di successo il discorso del passaggio, e cioè le condizioni di libertà laringea che consentano la giusta predisposizione delle corde. Se salendo verso la zona del passaggio la "spinta" del cantante aumenta sproporzionatamente, noi avremo una pressione sottoglottica che impedisce il giusto assetto della corda. Ecco, dunque, che nasce il consiglio, da parte dell'insegnante, di "alleggerire", e anche (come diceva Angelo Lo Forese) di percepire il falsetto (che in fondo E'). Analogamente la scuola romana di Cotogni, da cui prende le mosse Lauri Volpi nelle sue argomentazioni, consiglia di iniziare il canto dal settore acuto e scendere per trovare il giusto punto di attacco. Dico analogamente perché intuitivamente è poco probabile che si attacchi un acuto molto scuro e pesante, e del resto basta sentire la vocalità di Lauri Volpi per rendersi conto della levità con cui saliva, nonostante ciò non pregiudicasse in alcun modo (anzi.. anzi!) lo squillo e la potenza dei suoni acuti (e comunque si può comprendere che un allievo salendo sia portato a spingere, mentre è più difficile che prenda una nota acuta con una eccessiva energia).

domenica, dicembre 11, 2011

Chi è il padrone?

Come noto, il nostro corpo "parla", cioè esprime messaggi mediante movimenti più o meno percettibili di alcuni muscoli, principalmente del viso, ma spesso anche di spalle, mani, braccia, gambe. In particolare lo studio di questi messaggi è diventato importante per individuare quando una persona mente, in quanto il linguaggio del corpo spesso contraddice ciò che diciamo verbalmente. Ripeto: noi diciamo una cosa, ad esempio "ieri sono stato a casa tutto il giorno", ma movimenti degli occhi, del mento, delle mani, ecc., esprimono un disagio, uno o più movimenti eloquenti (per chi li ha studiati e li conosce) che fanno capire che la persona sta dicendo una bugia. Per la verità quando due persone si conoscono bene, come moglie e marito, o due amici di lunga data, sovente si accorgono quando l'altro mente, perché imparano a capire qualche gesto che mostra la scarsa sincerità, e, come suol dirsi, il bugiardo viene "sgamato". Anche la voce è rivelatrice di menzogne. Che sorpresa! Se escludiamo la parola in sé, su cui abbiamo un controllo piuttosto forte, il tono, la velocità, la fermezza, sono associati a stati emotivi su cui abbiamo molta meno padronanza e quindi: l'elevamento del tono, l'aumento di velocità o un certo tremolio rivelano un momento emotivamente forte che è difficile da controllare. Ecco qua: l'istinto. Chi è il vero padrone del nostro corpo? Se una persona normale, anche con un buon controllo di sè (come ad esempio i politici), non riescono a nascondere di avere imbarazzo, paura, vergogna, ecc., risulta evidente che chi ha il controllo massimo del nostro corpo è il nostro istinto. Sappiamo, peraltro, che questo dato non è assoluto. Gli orientali per primi impararono, con discipline ancor oggi in voga, a riprendersi il controllo totale del corpo; è chiaro, però, che la cosa non è per niente facile, richiede anni di lavoro ed esercizi tutt'altro che facili (anche se "semplici") soprattutto per la mente, in quanto noi andiamo a cercare di togliere qualcosa che è fissato nel DNA! e che ha, almeno potenzialmente, attinenza con la sopravvivenza dell'individuo e della specie umana (e non è un dato "culturale", è uguale per gli europei, gli asiatici e gli africani!).
Nel canto artistico noi ci troviamo in una condizione del tutto analoga. Non è che occorra disciplinare tutto il corpo, dunque ciò di cui abbiamo bisogno non consiste nel riprendere la totale padronanza del corpo, che richiederebbe tempi e modalità improponibili, ma esclusivamente una ripresa "in carico" di una parte della nostra muscolatura e del nostro fiato. In molto post di questo blog ho insistito sulle "forme chiave" delle vocali e sulla "ginnastica" dei muscoli del viso. Mi rendo sempre più conto di quanto essi siano importanti. Ogni volta che a lezione arriva un allievo nuovo, i primi minuti della parte pratica si spendono a cercare di far dire parole o semplici vocali con la giusta postura della bocca, e ogni volta si assiste a un teatrino dove l'allievo (... malcapitato!??) si trova (magari non proprio sempre, ma spessissimo) in grave difficoltà a mettere e tenere la bocca in un certo modo (ad esempio a O per dire O, o aperta per dire A). Ancora dopo mesi di lezioni, molti allievi dopo alcuni minuti di canto "parlato", accusano indolenzimento di labbra e muscoli del viso, perché non ancora resi del tutto plastici e soprattutto non ancora ripresi sotto controllo. In fondo potremmo dire che gran parte del canto esemplare consiste in questo. Ricordarsi che è semplice, e con la semplicità sarà conquistato. ... però non è facile.

mercoledì, dicembre 07, 2011

Il mito del diaframma

Quante centinaia di volte sarà capitato di sentire qualcuno che chiedeva lezioni o consigli "per imparare a respirare col diaframma", o direttori di coro che inducono a respirare col diaframma, e tutte le varianti che si possono trovare leggendo qua e là...
E' un mito; chiunque si mette in testa di cantare, deve subito tirar fuori questa espressione, quasi sempre senza avere la più pallida idea di cosa significa. Il che è normale, sono persone senza nozioni, sentono dire che per cantare bisogna usare il diaframma, e quindi cercano chi lo insegni. E spesso, specie nei forum, ci sono altrettanti esaltati che spiegano (o credono di spiegare) e si affannano a precisare con dovizia di esempi e particolari il come e il perché, salvo, spesso, avere nozioni quanto meno grossolane e spesso addirittura erronee (tipo scambiare la parete addominale col diaframma!).
Respirare col diaframma... diciamo subito che la frase di per sé non significa quasi niente. Infatti essendo il principale muscolo respiratorio, è pressoché impossibile che non compia un seppur minimo abbassamento e sollevamento. Dunque la frase allude a un coinvolgimento più profondo del diaframma. Ma che differenza c'è tra una respirazione profonda e una respirazione diaframmatica? Nessuna! Come al solito dobbiamo riprendere il tema fondamentale, cioè distinguere la respirazione fisiologica da quella artistica-vocale. Il coinvolgimento del diaframma avviene nel momento in cui l'aria diventa alimentazione del suono laringeo. Però normalmente quando si parla di respirazione diaframmatica si allude alla inspirazione, e dunque si fanno esercizi su esercizi sulla postura: la cosiddetta diaframmatica, la costale, la costo-diaframmatica... e dunque pancia in fuori, pancia in dentro e petto in fuori, ecc. Ma queste posizioni, prese senza educazione vocale, o con poca esperienza, creerà solo problemi. Pertanto sarebbe bene smitizzare questa confusa idea della respirazione diaframmatica. Impariamo a cantare, la respirazione verrà di conseguenza se la disciplina è corretta.

lunedì, dicembre 05, 2011

Il metodo Celletti

Andreste a studiare paracadutismo da un personaggio che non è mai neanche salito su un aereo, ma ha passato molto tempo ad osservare i paracadusti e ha letto molti libri sull'argomento? Scopro or ora che esisterebbe un metodo "Celletti" di canto, e che esiste una "depositaria" di questo metodo. La cosa piuttosto divertente, nota, credo, a tutti, è che Celletti non ha mai cantato, non ha mai preso personalmente lezioni di canto (ho una lettera di suo pugno in cui dichiara ciò), ma da un certo momento si improvvisò maestro di canto. Ebbe allievi piuttosto famosi, la qual cosa, altrettanto nota, dovuta al fatto che era anche consulente di alcuni enti lirici, giornalista piuttosto in voga e infine anche direttore artistico di un teatro. Registrai, anni addietro, due trasmissioni radiofoniche in cui egli dava lezioni di canto. Ho poi anche avuto notizie di prima mano da persona che prese una lezione dal suddetto (non ci fu una seconda lezione perché la persona in questione rimase talmente sconvolta da non poter neanche pensare di tornare). Al di là delle note incapacità del soggetto, non ho mai letto o sentito né da lui (per qualche anno ho intrattenuto qualche contatto epistolare e anche personale) né da altri che posseddesse un "metodo". Cosa si inventa la gente per destare qualche interesse, per accalappiare qualche allievo... Pensate un po', conosco molte persone - non musicisti - che hanno una grande passione per il pianoforte, conoscono tutti i più grandi e anche meno famosi pianisti, tutte le loro incisioni, le biografie... ebbene, pensate se uno di questi mettesse su una bella scuola di pianoforte: metodo "michelangeli", in quanto conosceva pure quanti capelli aveva in testa il celebre artista. Scommetto che si riempirebbe di allievi.

domenica, dicembre 04, 2011

la "O" di Giotto

L'aneddoto vuole che un giorno si sia presentato a Giotto un messo del Papa Benedetto XI, che voleva una prova dell'abilità del pittore. Con stupore del messo, Giotto non diede un dipinto già pronto, ma prese un foglio e vi tracciò con un sol gesto una O perfetta. Il messo, con qualche esitazione, portò il singolare dipinto al Papa, che comprese. L'aneddoto, vero o falso che sia, ha un significato evidente: il superamento di una barriera fisica e il dominio della mente. Chiunque sa com'è fatto un cerchio, e credo un po' tutti si siano cimentati prima o poi nel tentativo di eseguire una circonferenza a mano libera. Chi, magari per qualche motivo lavorativo, lo fa spesso e con pazienza, magari avrà raggiunto una certa abilità, e potrà anche essere successo che uno di questi tentativi sia venuto così bene da apparire un cerchio esatto. Però c'è una differenza tra il SAPERE di poterlo disegnare senza esitazione e infallibilmente e il tentare di farlo. Allora si potrebbe dire che Giotto, pur senza nulla dire, dimostrava immodestia, presunzione? O egli era semplicemente consapevole? La "quasi" perfezione non esiste, o meglio, non è una differenza di poco conto. Il m° Antonietti diceva a proposito: è come riuscire a passare al di là di un muro. Se sei dall'altra parte vedi cosa c'è, e sai che è possibile e sai come hai fatto. Chi continua a dare capocciate nel muro può anche dire di esserci "quasi" riuscito, e magari è anche vero, però la differenza è incommensurabile. Chi continua a dar testate nel muro e non ci crede che si può passar di là, darà anche del presuntuoso a colui che ci è riuscito, non accettando la propria condizione, oppure potrà ritenerla un'impresa "magica", oppure una dote singolare non riproducibile, ecc. ecc. e adesso molti penseranno: va bene, ma nessuno è in grado di attraversare un muro! Ovviamente no, perché non si può modificare lo stato fisico delle cose, questo era solo un paragone per spiegare la O di Giotto e la differenza tra il conoscere consapevole, cioè la Verità e l'Arte, e la tecnica, sempre perfettibile. Ovviamente anche la voce può assurgere a perfezione, cioè si possono fare infiniti cerchi perfetti, non per caso, non per tecnica, ma per conquista sensoria.

venerdì, novembre 25, 2011

Attacchi e prolungamenti

Questo argomento si lega con quello dell' "alimentazione" del suono. E' molto importante comprendere il concetto della "scintilla" che accende il suono. Quando si attacca il suono al fine di fare un suono lungo, prolungato, è importante rendersi conto che non è possibile fare una pressione sul suono come fosse un "pistone" verso l'esterno. Questo produrrà solo suoni brutti e fastidiosi. Tutto sta in un attacco morbido e leggero, che durerà una frazione di secondo, dopodiché... che succederà? Salvo alcune persone che hanno una naturale tendenza a un canto morbido ed espressivo, quasi tutti avranno difficoltà a "mollare" questa spinta, pensando, per l'appunto, che affinché il suono prosegua, bisogna per forza spingerlo. Quindi i primi riflessi di questa concezione saranno una diminuzione esagerata del suono, a cui peraltro non sempre si accompagnerà un reale sganciamento della muscolatura, per cui possono risultare anche suoni piccoli e leggeri... spinti!! La questione invece è che immediatamente dopo l'attacco, il suono si alimenta con un fiato leggerissimo che NON DEVE comportare alcuna tensione muscolare. In realtà la cosa importante, riferendoci al "fiato statico", è che non si deve fare alcun pensiero di spinta, comunque lo si intenda, compreso, quindi, quello di alimentazione.

domenica, novembre 20, 2011

Da che parte stanno?

Da un punto di vista rigorosamente anatomico, le cavità oro-faringee e la laringe, oltre che polmoni, bronchi, diaframma, ecc., appartengono all'apparato respiratorio. La parte superiore, poi, appartiene ANCHE all'apparato digerente. Qualcuno aggiungerà ANCHE all'apparato vocale. Allora vediamo di precisare. L'apparato respiratorio ha necessità di un condotto sufficientemente spazioso per poter assumere e restituire all'ambiente l'aria di cui necessita; per un principio di economia, utilizza un canale già esistente, non necessitando di caratteristiche così particolari. Infatti l'aria può transitare sia dal naso che dalla bocca in proporzioni molto variabili. Se non ci sono necessità particolari, come durante un'attività fisica di una certa intensità, il fatto che la bocca sia chiusa, semichiusa o più o meno aperta, è scarsamente importante. Dunque, possiamo dire che le cavità oro-faringee sono "imprestate" all'apparato respiratorio. Un po' diverso per l'alimentazione, perché la bocca è necessario che possa assumere diverse gradazioni di apertura, a seconda del cibo che si vuole introdurre. La possibile coesistenza di aria e materia solida e liquida ha reso necessario un "semaforo" che faccia transitare ora una ora l'altra sostanza, anzi, nell'uomo sono stati necessari due "scambi": il velopendolo e la laringe. Questi, con i loro movimenti, fanno sì che il cibo si incanali nell'esofago e l'aria nella trachea senza invadere spazi inappropriati. La laringe, poi, ha anche un utilizzo più sofisticato, in quanto potendo non solo impedire l'entrata di cibo, ma anche l'uscita di aria, può creare una condizione di pressione interna al corpo utile per alcune esigenze corporali; è la cosiddetta funzione valvolare. Queste esigenze sono ovviamente primarie nella vita dell'uomo. Quindi nei momenti di vita vegetativa, l'apparato si UNIFICA e comporta come RESPIRATORIO, primariamente; nel momento in cui ci alimentiamo, può ALTERNATIVAMENTE comportarsi come respiratorio e DIGERENTE. Infatti l'alimentazione, pur durando complessivamente a lungo, richiede solo pochi attimi per ciascun boccone (a meno che non ci rimanga qualcosa bloccato in gola, che ci può portare al soffocamento, oppure se beviamo senza interruzione, il che comporta poi una sorta di fiatone). Ma possiamo anche osservare che nella vita di RELAZIONE con il prossimo, questo apparato si comporta, sempre in modo UNIFICATO, come apparato VOCALE nel momento in cui parliamo. Il nostro fiato uscendo mette in vibrazione quelle labbra muscolari all'interno della laringe che provocano il suono vocale, che le cavità oro-faringee amplificano, che la bocca articola in fonemi, il tutto sempre ALTERNATIVAMENTE alla funzione respiratoria. Addirittura è possibile che le tre funzioni si alternino in un ristretto spazio di tempo. Miracoli del nostro corpo incredibilmente costruito. La questione è che fin qui rimaniamo nell'ambito delle esigenze vitali, più o meno prioritarie. Se stiamo scappando da un pericolo, certamente la funzione respiratoria non permetterà altri utilizzi, se abbiamo una fame da lupi, rischieremo che il cibo ci vada di traverso nell'affanno di alimentarci. La parola non ha priorità, ma può averlo l'urlo. Il neonato può correre qualche pericolo se per qualche serio problema vagisce insistentemente, al punto da rendere troppo irregolare la respirazione. La laringe, infine, può anche svolgere un ruolo da vera valvola quando si è in acqua. Un principio istintivo, notato nei bambini anche appena nati, fa sì che essi possano restare per un certo tempo sott'acqua senza alcuna coscienza del problema dell'inspirazione, provvedendo la laringe a impedire che possa entrare acqua nei polmoni.
Nel momento in cui vogliamo utilizzare una funzione oltre le esigenze di vita quotidiana, questa perde le proprie caratteristiche istintive e quindi anche quell'unitarietà conferitagli dalla Natura. Ecco, dunque, che nel momento in cui noi vogliamo utilizzare la voce non più come semplice strumento di comunicazione quotidiano, ma con qualità più elevate, che comportano anche maggior impegno, noi ci ritroviamo con i "pezzi" sparsi: le cavità, la laringe, il fiato e quanto lo regola. Perdere l'unitarietà e rendersi conto che esistono i "pezzi", sta alla base dei difetti più gravi, perché l'uomo, invece di cercare di mantenere quell'unitarietà, va a studiare separatamente le parti cercando, inutilmente, di farle andare d'accordo. E' come smontare un orologio e cercare di rimetterlo insieme, ma qui la complessità è di gran lunga maggiore, perché esistono dei rapporti elastici che nei meccanismi metallici non esistono. Ma la soluzione in realtà è sotto gli occhi, perché l'unitarietà la Natura ce la fornisce mediante il parlato. Questa soluzione, per quanto ovvia, non è affatto facile, perché noi non abbiamo alcuna coscienza del suo funzionamento. Ce ne cominciamo a rendere conto, come scrivevo qualche post fa, quando da un parlato inconscio, fluido, diciamo "naturale", cominciamo a rallentare e voler pronunciare con più precisione. Ancor più quando il parlato vuol essere ampliato a una gamma molto ampia. Quando poi vogliamo "adattare" il parlato a una o più note musicali, diciamo una melodia, ecco che il problema si fa gigantesco, perché ci troviamo di fronte a una reazione potente del nostro istinto (a meno che non si sia dei privilegiati dalla Natura), che ci porrà di fronte a ostacoli e resistenze notevoli. A questo punto ci possono essere le soluzioni degli antichi, che in linea di massima sceglievano la strada dell'educazione quotidiana con la parola, passando solo più tardi al vocalizzo, ritenendo giustamente che in quel modo si esercitasse il fiato e lo si sviluppasse a sorreggere il peso della voce intonata su tutta la gamma. Poi è subentrata la fretta e la voglia di prendere le scorciatoie, le tecniche, i metodi, illudendo che con quelli si possono ottenere migliori risultati in minor tempo, e con la trappola del disco, che non può riportare l'effetto che si può cogliere solo in una grande sala teatrale, si spinge a credere che un tempo le voci fossero più piccole e meno sonore, e che solo l'oscuramento può portare ai risultati degni del tardo repertorio lirico. L'Arte non può prevedere i tempi, che non possono essere brevi, anche se sempre molto dipendenti dall'insegnante e dall'allievo, ma non potranno che essere di grande valore e senza controindicazioni, nel senso che chiunque, qualunque voce abbia, non potrà che migliorare e raggiungere la propria migliore forma possibile. Il problema, come diceva il m° Antonietti, è che l'artista insegnante con scolpisce del marmo inerte, ma deve affrontare l'istinto dell'allievo, che per quanto standardizzato si comporta anche con una propria intelligenza e quindi è da studiare, prevenire, accerchiare, ingannare, ma anche con l'ego, la personalità dell'allievo, che è portata fatalmente a schivare ciò che non ritiene soddisfacente, proiettato in un'ottica di esaltazione della persona e delle sue caratteristiche. Ecco, quindi, che spesso, se non sempre, l'insegnante deve anche essere uno psicologo e debba ingannare l'allievo stesso per evitare che abbia reazioni negative allo sviluppo stesso della sua voce. Sappiamo, ad esempio, quanto sia controproducente che l'allievo guardi la tastiera del pianoforte, perché così facendo può indurre determinate azioni, come lo stringere o lo scurire quando nota che ci si avventura su note che ritiene impegnative per qualche motivo. Dunque, cercare di ricordarsi che le parti dell'apparato, separatamente, possono solo portare a difetti, anche gravi, e sia necessario sempre esprimere parole VERE, non imitazioni, non borbottamenti, non infingimenti.

sabato, novembre 19, 2011

Non solo registri...

Riprendo il post precedente, cercando ancora di chiarire questo concetto, tutt'altro che secondario. In pratica la condizione delle corde vocali può dipendere da due fattori: meccanica dei registri oppure "ombrello", cioè reazione fisiologica alla pressione del fiato. Il primo caso è, naturalmente, ciò che occorre per far sì che la laringe si comporti come uno strumento musicale e non come "valvola", e parliamo di una condizione iniziale, cioè quella condizione alla base dello sviluppo vocale. Se la corda non è libera di assumere l'atteggiamento idoneo al suono che si intende emettere, il rapporto tra fiato e atteggiamento della corda sarà improprio, dunque i suoni difettosi. In teoria sarebbe necessario raggiungere primariamente questo obiettivo per poi educare il fiato e procedere con quello sviluppo che porta all'annullamento dei registri. Credo che un tempo questa procedura fosse l'unica seguita, ma ci fossero anche migliori condizioni umane perché si verificasse. Oggi ci sono molti fattori ambientali e sociali che portano i soggetti a spingere, e a creare condizioni estremamente difficoltose per il superamento degli ostacoli frapposti dalla fisiologia e dagli istinti, per cui il raggiungimento di questo obiettivo viene realizzato di pari passo con l'educazione del fiato, e talvolta richiede diversi anni. In parole povere, la corda deve essere "purificata" dalle pressioni estranee per potersi comportare come corda veramente musicale e non come un qualsiasi muscolo vibrante quasi casualmente.

martedì, novembre 15, 2011

L'ombrello

Tema molto importante.
Le corde vocali addotte hanno una conformazione simile ad un ombrello; la funzione però è opposta, in quanto non riparano da oggetti provenienti dall'alto, al quale scopo provvede principalmente l'epiglottide, ma contengono la corrente d'aria proveniente dal basso, dalla trachea. Pensate, con un ombrello aperto, di passare su una griglia da cui proviene una corrente d'aria (come Marilyn): l'ombrello, investito dal basso, frenerà il flusso aereo finché regge, dopodiché si rivolterà; ciò avviene perché non è stato progettato per resistere a questo tipo di pressione. Le corde vocali (labbra della glottide) invece sì, per cui esiste un meccanismo importante di cui dobbiamo occuparci.


Le corde vocali, da un punto di vista fisiologico, hanno lo scopo di sbarrare il cammino all'aria affinché la pressione polmonare aumenti; è un'azione necessaria per mantenere più efficacemente il busto diritto e per altre esigenze fisiologiche. Mediante vari tipi di forza che ognuno di noi può facilmente esercitare sui polmoni (pressione toracica o addominale), questa pressione può aumentare considerevolmente (come strizzare un palloncino). Come fanno le corde vocali a contrastare e contenere questa pressione? Aumentando di spessore; è la cosiddetta "massa cordale". Ora, questo meccanismo automatico comporta alcune azioni che è bene tener presente nel canto: per aumentare la massa, la laringe deve per forza abbassarsi, perché essendo il faringe a "imbuto", è nella parte più bassa (ipofaringe) che esse possono avvicinare i due punti di ancoraggio (cartilagini tiroide e aritenoide)e quindi ispessirsi. Quest'azione però crea un'altra situazione: praticamente non è possibile il passaggio alla corda di falsetto, perché essa non prevede il coinvolgimento di tutta la massa cordale ma solo del bordo. Infatti quest'azione è in pratica quel "belting" che usano cantanti di musica moderna "estrema" per cantare in una modalità "di petto" su note del tutto estranee a quel registro.
Da un punto di vista artistico le cose stanno in questo modo: il fiato deve possedere una ben precisa pressione corrispondente alla conformazione delle corde vocali relative a ogni suono che vogliamo emettere. Risulta evidente che è impossibile e velleitario pensare di poter volontariamente creare queste condizioni, ma che il nostro sistema neurologico è in grado di autoregolare questi rapporti. Nonostante ciò dobbiamo fare i conti con: l'istinto, l'incapacità di controllare le proprie forze, le tendenze inconsce. L'istinto, nei soggetti che non hanno alcuna educazione respiratoria o ne hanno una pessima, spingerà affinché dopo qualche secondo si svuoti la sacca polmonare, e questo creerà una pressione sottoglottica indebita. L'incapacità di controllo farà sì che si esercitino confusamente delle pressioni principalmente sulla parete addominale e sul torace che faranno aumentare considerevolmente la pressione; le forze inconsce sono responsabili dello stesso tipo di problema che si origina, però, per cercare di cantare con molto volume, molta "canna", e cercare acuti potenti. Agli allievi alle prime, ma non di rado anche a chi ha lunghi studi alle spalle, sbagliati, dobbiamo sconsigliare qualunque postura respiratoria "costruita", perché comporta sempre una pressione sul fiato (e quindi sotto la laringe) del tutto inopportuna (talvolta bisogna addirittura ridurre considerevolmente l'inspirazione). Ma c'è di più e di peggio. Molti ragazzi presentano notevoli difficoltà a salire sugli acuti, e spesso anche insegnanti con lunga esperienza non riescono a risolvere il problema e incolpano la mancanza di "talento" dell'allievo o difficoltà fisiologiche (e via dal foniatra...) o addirittura sbagli di classificazione. E' vero che il problema in alcuni casi può presentarsi talmente incancrenito da risultare difficile e lungo da risolvere, ma non impossibile, e occorre averne ben presente la causa. Come abbiamo già detto, l'eccesso di pressione impedisce l'assottigliamento e tensione della corda, che resta nell'atteggiamento "grosso", che corrisponde ai suoni "di petto", il che significa che il passaggio non può verificarsi o in modo parziale e scorretto (questo può comportare anche lo spostamento del punto di passaggio). Dunque la conditio sine qua non per affrontare correttamente lo studio del canto artistico, in particolare per educare correttamente soprattutto il settore acuto, è quello di ridurre ed eliminare le spinte, vuoi istintive, vuoi narcisistiche, vuoi inconsce. Il parlato è sempre da considerare il toccasana e la guida magistrale, perché il parlato si autoregola. Quando parliamo noi abbiamo la pressione adeguata al volume, all'intensità, all'altezza e al colore del suono, e abbiamo le forme interne già calibrate allo stesso scopo. Strumento (corde), amplificazione-articolazione (forme), e alimentazione (fiato) sono in sincronia e relazione automatica perfetta. Se noi riusciamo a estendere il parlato, senza cadere nel canto artificioso, nel narcisismo imitativo, nelle posture tensive e meccaniche, non daremo altro che delega ai nostri apparati di conformarsi perfettamente alle esigenze vocali. Ogni volontà di volersi sostituire ad esso o volerlo "aiutare", non faranno che allontanare il momento in cui esso potrà renderci felici con un canto puro e libero.
Alleggerire, togliere la pressione del fiato, ci darà l'idea di dare meno voce, di impoverirla, e questo comporta una reazione del nostro ego, che non accetta volentieri suoni che ritiene esili, poco importanti. Occorre dunque sacrificare l'ego, sopportare questo momento, che può essere molto breve se si ha volontà. Togliere pressione può voler dire in poche lezioni recuperare tutta l'estensione possibile e poi sentire finalmente la pienezza della propria voce con tutto il volume e il carattere proprio, ma anche con quella libertà che diversamente non si può dare. Questo ha un costo in termini di impegno, perché la canna di fiato libera, senza più pressione sottoglottica, che rappresenta un freno, avrà un peso considerevole; questo richiederà un tempo di allenamento, ma risultati sempre entusiasmanti.
Ultima annotazione. Quei docenti che inducono gli allievi a mantenere la laringe sempre bassa, dovrebbero anche rendersi conto che così facendo le corde rimangono sempre "spesse", per cui occorre molta energia per metterle in vibrazione (quindi c'è sempre una pressione elevata), ma soprattutto si rende impossibile un vero passaggio al registro di falsetto. Ecco perché alcuni cantanti che utilizzano questa meccanica (diciamo "affondo estremo"), non presentano i caratteri dei due registri e paiono cantare sempre di petto e talvolta addirittura in una classe inferiore (tenori che sembrano baritoni, baritoni che sembrano bassi, soprani che paiono mezzi, ecc.). Questa modalità non ha niente di belcantistico, di artistico, e produce una condizione biomeccanica che solo pochi possono reggere, con gravi rischi per la salute, ma anche forti limiti vocali, soprattutto di natura espressiva.

venerdì, novembre 11, 2011

La cassa acustica

Tornando al concetto del "fiato statico" affrontato pochi post fa, mi pare esemplificativo l'esempio della cassa acustica di un impianto stereo. In fondo è un oggetto semplice: un mobile, più o meno grande, con due o più altoparlanti elettrici: un impulso elettrico provoca la vibrazione di una membrana. Punto. Il mobile, contenente nient'altro che aria, amplifica il suono dell'altoparlante. Nell'uomo le cose sono appena appena più complesse, ma il principio è identico. Abbiamo un impulso nervoso (elettrico anch'esso) che dal cervello stimola le corde vocali, che si adducono e si conformano alle esigenze del suono da emettere. Siccome l'uomo è fatto molto meglio della cassa dello stereo (però ha anche diversi limiti), non abbiamo bisogno di due o tre altoparlanti, cioè membrane di diversi diametri, perché quelle sono fisse, mentre le c.v. sono mobili ed elastiche e si atteggiano a seconda che il suono sia chiaro, scuro, acuto o basso. Nel caso dell'uomo lo stimolo nervoso è insufficiente a produrre un suono, per cui occorre un mezzo più efficace (così come il violino si potrebbe suonare con le sole dita, ma avrebbe limiti notevoli, cosicché si inventò l'archetto) che è l'aria, la quale può essere regolata in base a tutti i parametri musicali (altezza, colore, intensità, ecc.). Ribadisco, quindi, che il fiato non è da considerare il veicolo che porterà il suono agli ascoltatori, perché a questo penserà l'aria dell'ambiente come in tutti i fenomeni acustici, ma esclusivamente il mezzo di produzione del suono. La pressione sonora ha poi importanti implicazioni nella stessa amplificazione. Se qualcuno inventasse (e prima o poi capiterà) una cassa altoparlante costruita con un materiale elastico, a seconda dei parametri sonori noi vedremmo la cassa modificare la propria forma e le dimensioni. All'interno dell'apparato vocale avviene già automaticamente questo fenomeno, a patto che il cantante LASCI che avvenga, e non cerchi egli di produrlo, inibendone, con questo gesto tensivo, il corretto funzionamento. E' bene sottolineare, però, che anche questa immaginaria cassa elastica avrebbe un funzionamento "statico", vale a dire non c'è una proiezione forzata, spinta, verso gli ascoltatori, ma tutto è fermo, esiste solo la vibrazione sonora che raggiunge l'udito di chi ascolta attraverso l'aria ambientale. Ciò che rende qualitativamente elevata una emissione, è la capacità di amplificazione, la quale, però, non deve subordinare il proprio ruolo a quello del contenuto. Cioè è inutile avere una cassa efficientissima che amplifica molto ma che non permette di distinguere il suono di un pianoforte da quello di un violino! (cioè distorce). Analogamente la manìa di avere tanto suono non può e non deve deturpare il contenuto musicale del canto, quindi per considerare accettabile un risultato canoro, dovranno sempre sussistere le possibilità di adattare la dinamica del suono, di legare, di rendere del tutto comprensibili le parole e, ovviamente, di intonare perfettamente. Questo può avvenire senza grossi problemi se il soggetto non forza la natura ma si mette nelle condizioni di lasciare avvenire il fenomeno. E' evidente che, come una cassa musicale, ci sono caratteristiche fisiche oggettive su cui non si può intervenire (dimensioni: una persona grande e grossa avrà più amplificazione di una persona minuta; materiali: l'ossatura, le cartilagini e le pareti elastiche non sono uguali in tutti; forme: pur nelle similitudini, anche la conformazione di alcune parti dell'apparato, come il palato, possono avere un'influenza anche di un certo peso nella qualità del suono), ma in ogni modo è la capacità di non intervenire e non influenzare la produzione del suono e dell'amplificazione a permettere il miglior funzionamento.

domenica, novembre 06, 2011

Il fiato statico

In fondo questo argomento potrebbe sintetizzare buona parte della filosofia belcantistica, ed è pertanto argomento cruciale in tutto lo studio.
Credo che uno degli equivoci più disastrosi in tutte le scuole riguardi proprio il ruolo del fiato. Grande studio e approfondimento si fa intorno al ruolo del diaframma, delle posture della pancia, del busto, ecc., ma alla fine del ruolo svolto essenzialmente dall'aria e dalle sacche polmonari, si dice (e credo si sappia) poco. Tutto parte sempre dall'immagine di una corrente aerea che mette in vibrazione le corde vocali quando queste sono addotte. Questo è ovviamente vero e giusto, ma già qui c'è una carenza informativa, perché occorre aggiungere che il fiato fisiologico non è in grado di compiere con estrema semplicità questo compito; infatti per vincere la resistenza delle cv è necessario che il fiato assuma una seppur minimamente accresciuta pressione. Questa pressione si comunica a tutta l'aria contenuta nei polmoni, pertanto la pressione che serve a mettere in vibrazione le labbra della glottide, si ripercuote anche su tutta la superficie polmonare, compreso il diaframma. Ovviamente più impegnative saranno le note da eseguire, cioè acute e/o scure, maggiore sarà la pressione. Detto questo, che non approfondisco, essendoci tanto di già scritto in proposito precedentemente, non posso non segnalare che detto così porta a un errore di valutazione non di poco conto. Infatti la nostra mente è portata a leggere questo processo come una sequenza di azioni che si svolgono cronologicamente in un certo arco di tempo. Mi spiego meglio: credo che si sia portati a pensare a una corrente d'aria che provenendo dai polmoni arrivi sino alle corde vocali, le metta in vibrazione quindi raggiunga la cavità oro-faringea, e infine esca nell'ambiente. Pensare così è profondamente errato, ed è una delle cause per cui il canto non può diventare vera Arte. Noi dobbiamo invece renderci conto che l'azione è sincronica, avviene pressoché nello stesso istante, e questo per un motivo molto semplice: l'aria è già ovunque, in bocca, in gola, fuori, nei polmoni. Ciò che manca è l'impulso vibratorio, ma non bisogna confondere questo con il flusso aereo. L'impulso sonoro attraversa l'aria esistente e si propaga; se chi ascolta dovesse aspettare che il fiato di chi canta raggiungesse tutti... staremmo freschi!!!
Pensiamo al funzionamento di molti strumenti a percussione o di un qualunque rumore: si produce una vibrazione e istantaneamente l'onda sonora parte in ogni direzione alla velocità del suono. Pertanto appena le corde vocali si mettono in vibrazione, l'aria contenuta nelle cavità riceve l'impulso e lo amplifica e si comunica, sempre con una velocità tale da apparire istantanea, all'ambiente esterno.
Dunque, ed è cosa che dimostro sempre a tutti, ma in fondo è cosa di tale semplicità e naturalezza da non richiedere alcuna competenza straordinaria, il suono può nascere al di fuori di noi istantaneamente, basta volerlo! Non c'è bisogno di alcuna postura, alcun coinvolgimento di diaframma o pancia o altro. Il "di più" è ciò che ci serve per dare qualità al suono. Sappiamo, peraltro, che il fiato scorre e non possiamo e non dobbiamo mai arrestarne il flusso. Dunque come si sposa l'argomentazione precedente con questa? E appunto qui nasce il fondamentale concetto dell'alimentazione, che quando compreso è in grado di eliminare un gran numero di difetti volontariamente o istintivamente o inconsciamente sviluppati.
Il primo concetto che dobbiamo apprendere da questa constatazione è che il fiato non è realmente un flusso che dai polmoni transita esternamente, bensì SI CONSUMA nell'azione vibratoria; la massa aerea assume una pressione relativa al tipo di suono, e questo comporta l'appoggio e la modellazione delle forme elastiche. Il secondo concetto è, dato il primo, che risulta del tutto controproducente "spingere" il fiato, giacché non solo non serve a niente, dato che l'aria vibrante è quella già presente nel condotto, ma non farà che creare quell'effetto "valvola" che provocherà la chiusura - maggiore o minore - della glottide. In questa situazione c'è quindi un'idea "statica" del fiato; pensare di premerlo o mandarlo volontariamente in una qualunque direzione con una certa pressione è lo sbaglio comune e detentore di un gran numero di difetti. Dobbiamo, a questo punto, inserire nel discorso anche la questione pronuncia. Cerchiamo di rimanere concentrati sui concetti appena espressi. La pronuncia è semplicemente una "forma" del suono; infatti esso si modella in base alla forma dello spazio oro-faringeo. Se invece di "mandare" i suoni fuori, noi semplicemente li pensiamo - o vogliamo - fuori dalla nostra bocca, come se nascessero lì (e come possiamo dire che effettivamente sia), noi mettiamo già in atto un importante elemento di corretto sviluppo della vocalità. Potremmo dire che il fatto di avere un fiato fluente, ci crea una indicazione non del tutto idonea al processo educativo.
Con questo post mi rendo conto di contraddire un po' alcune frasi e concetti espressi precedentemente, ma è una consapevolezza più chiara che mi è pervenuta alla coscienza in questi giorni, ma mi rendo anche conto che si tratta di un perfezionamento o completamento di un concetto sostanzialmente già presente.

sabato, novembre 05, 2011

Passaggio a Nord-Ovest

Leggo in questi giorni su un sito di belcanto che il passaggio (di registro) non esisterebbe. Chi legge questo blog dovrebbe sapere che fin dai primi post noi affermiamo che i registri in realtà non esistono, ma potenzialmente, cioè per questioni istintive nel 90% dei casi essi sono non solo esistenti ma molto evidenti. Chi studia e approfondisce il campo artistico della voce non può basarsi su una casistica sparuta, ma su decine e centinaia di casi. Che esistano, naturalmente, un cosiddetto registro di petto e un cosiddetto registro di falsetto-testa, o comunque li si voglia chiamare, l'hanno sempre detto i cultori della voce, si trovano menzionati negli antichi trattati, in quelli più recenti, lo dice anche la scienza foniatrica. Dunque risulta un po' troppo semplicistico dire: il passaggio è una sciocchezza. Se prendiamo allievi di canto con voce "grezza" e facciamo loro eseguire una scala ascendente, a un certo punto cosa capiterà pressoché sempre? Che i suoni risulteranno gridati, eccessivamente aperti, sguaiati, e assai spesso l'impossibilità di proseguire. Mi viene un po' in mente il salto in alto, quando un signore, un bel giorno, constatando come siamo fatti, inventò il salto dorsale (alla Fosbury)che rese possibile salti molto più efficaci ed elevati. La questione è un po' diversa, ma può rendere l'idea. I cantanti di musica leggera cantano su una tessitura assai ampia mantenendo lo stesso registro di voce parlata... e potrei continuare a lungo con esempi molto noti, credo, a tutti. Allora veniamo a parlare del passaggio. Che esistano non dovrebbe esserci dubbio; che il registro della voce acuta sia diverso da quello centrale dovrebbe essere altrettanto chiaro, e dunque che si debba passare dall'uno all'altro sembra indispensabile, a meno che non si canti su un registro unico, ma questo non è proprio del canto lirico. La questione, come ho già accennato anche qualche post fa, può riguardare il modo di passare. In effetti se assumiamo il trattato di Garcia come base di un ideale belcantismo, egli parla di suono oscuro, sì, ma non come soluzione del passaggio, bensì come colore per particolare stile di canto. Il passaggio egli lo indica come un graduale allenamento da fare educando il fiato sui due registri, per cui lui scrive: eseguire il re3 prima di petto poi di falsetto un certo numero di volte, poi idem sul mib, ecc, poi fare re di petto e mib di falsetto, cioè con distanza di semitono, e via dicendo. Questa la possiamo considerare un'ottima via, però si scontra un po' con il modo di cantare novecentesco, dove il ricorso al falsetto debole è poco gradito. Raggiungendo le note "classiche" del passaggio, noi ci troviamo con una intensità nel petto considerevole, e come possiamo "passare" al falsetto, se questo non avviene naturalmente? Se mi si chiede se è possibile salire sugli acuti con una A aperta senza alcuna necessità di oscuramento, io posso rispondere di sì, laddove ne esistono le prerogative, e aggiungerò che è possibile anche fin dalle prime lezioni, stabilire un'ampiezza di forme, uno "sgancio" dalla muscolatura, tale per cui il fiato andrà ad alimentare la corda che sensibilmente si sentirà richiamata ad assumere l'atteggiamento gradualmente più consono a quei suoni. Quindi il processo educativo dovrà passare innanzi tutto attraverso il parlato, intonato e no, che "sveglierà" l'istinto dalla sua pigrizia e lo stimolerà a produrre una qualità respiratoria adeguata alla nuova esigenza. Inoltre si potrà passare attraverso l'uso delle diverse vocali, che con necessità diverse aiuteranno a trovare di volta in volta la giusta sintonia tra gli apparati e a conseguire quindi graduali progressi.

martedì, novembre 01, 2011

Del color chiaro

Senza addentrarmi troppo nell'argomento, posto un video di R. Blake in cui canta un'aria dalla Donna del lago di Rossini, dove sono particolarmente evidenti due aspetti: il ricorso da parte del cantante a un colore particolarmente chiaro, al limite dello schiacciato, e, per ottenerlo, l'adozione del cosiddetto "sorriso", che soprattutto nelle prime frasi del brano è facilmente visibile nel suo volto. Questo gli consente poi anche quella facilità di vocalizzazione veloce. Il color chiaro è certamente utile e preferibile in tutto il centro, sicuramente Blake si è reso conto che adottando questa postura, descritta nei trattati antichi, in particolare dal Garcia, si sta lontani dalla gola e si favorisce il canto sul fiato. Non posso tacere però che non approvo del tutto questa esecuzione proprio perché il lato tecnico, per quanto tendenzialmente positivo, non può prevaricare l'espressività e il giusto dosaggio dei colori. In ogni modo è una lezione che invito ad osservare e a far propria.

domenica, ottobre 30, 2011

lezioni di canto

Ieri riascoltando un cd di Schipa, mi sono reso conto di quanto perfetta fosse la sua esecuzione, soprattutto sul piano vocale, ma non meno su quello musicale, dell'aria del Duca di Mantova dal Rigoletto di Verdi. Ne ho trovate due versioni su Youtube che vi posto all'attenzione: la prima del 1913, la seconda del '28, quindi a 15 anni di distanza. Nella prima esecuzione si gioirà della freschezza vocale che permette al Nostro una nitidezza di pronuncia soprendente, che consente sempre una mirabile esattezza di intonazione, ma anche un gioco di legati, di mezzevoci, di intenzioni affettive sorprendenti per facilità. Tutte cose, si badi bene, che non vengono per caso o per intenzioni che non siano supportate da studio e volontà nonché intelligenza.

Nella prima esecuzione, oltre al detestato sib (che non è perfettissimo), ci sono alcuni respiri non sapientemente individuati e qualche imprecisione esecutiva. Non ho grossi dubbi sul fatto che comunque insieme a quella che posto subito dopo sia presumibilmente la più perfetta esecuzione di quest'aria ch'io abbia mai ascoltato, e una delle più perfette di Schipa (il che è tutto dire!). La versione del '28, un po' più bella come registrazione, ci propone Schipa quasi identico sul piano esecutivo (ma per fortuna stavolta senza il sib), con una maturazione in più sul lato espressivo, i fiati meglio individuati però un filo di appannamento nella voce, dove la dizione non è più così perfetta. Credo sia un grande esempio per chi studia o è appassionato di canto ascoltare a confronto queste due versioni proprio per educare l'orecchio e cogliere, nell'ambito di prestazioni paradisiache, i "peli nell'uovo".

Le canne d'organo e il legato

Lo strumento vocale umano non è direttamente riconducibile ad altri strumenti costruiti dall'uomo; possiede le corde, come violino, chitarra, pianoforte, ma funziona ad aria, come un clarinetto, un organo o una tromba. Questo è motivo di tanta confusione in chi lo utilizza e in chi lo insegna, perché non sa bene a che tipologia tecnica o meccanica far riferimento, per cui spesso si taglia corto dicendo: lo strumento umano non si vede, ed è per questo che è difficile da imparare ad usarlo. Come ho già espresso in passato, il fatto di non vedere lo strumento è del tutto ininfluente, non ha alcuna importanza. Anche dell'organo si vedono solo la tastiera, la pedaliera, gli strumenti di registrazione e qualche canna, e non è così indispensabile conoscere tutto il complesso meccanismo che ne governa il funzionamento, perché non è compito dell'organista andare a manipolarlo: ciò che deve imparare a fare è la musica, cioè produrre le giuste note con i giusti registri avendo presente i criteri che permetteranno a quei suoni di sublimarsi in arte musicale (ammesso che sia possibile con un organo, ma questo è un dilemma che non investe queste pagine). Orbene l'organo ci serve per una analogia. A ogni tasto corrisponde una canna di un determinato registro, che avrà altezza, diametro (calibro) e caratteristiche proprie e dovrà ricevere una determinata quantità e qualità d'aria (ognuno si renderà conto che l'organo è di una rozzezza infinita, se paragonato al funzionamento automatico del nostro organo vocale). Ora, facendo ad esempio una scala di cinque note su un organo, noi andremo a mettere in risonanza cinque canne diverse, ognuna con proprie caratteristiche, ma tali che, se abbiamo usato uno stesso registro, questi suoni saranno contraddistinti da omogeneità timbrica (se l'organo è valido, ovviamente). Siccome la voce è automatica e non è di per sé suddivisa in note e registri, il più delle volte si tende ad affidarsi al caso, ovvero alle capacità automatiche della mente, per mantenere omogeneità e validità ai vari suoni eseguiti. Questo potrebbe anche funzionare, ma, senza necessità di affidarsi a tecniche meccanicistiche o cervellotiche, noi possiamo fare qualche ragionamento utile e semplice (che non significa facile). Nell'eseguire la scaletta con la voce, noi rischiamo di avere suoni non perfettamente intonati e non perfettamente omogenei. Come possiamo fare a raggiungere questo obiettivo? Il consiglio è proprio quello di riferirsi all'organo, con una precisazione peculiare della voce. Così come ogni suono dell'organo richiede una canna, anche ogni suono richiede una propria "canna", cioè una conformazione precisa degli apparati vocali. Questa conformazione non può e non deve essere studiata e indotta volontariamente, è già insita nella nostra natura, che sa "sintonizzare" gli apparati, cioè armonizzarli. Questo a patto di non aver creato tensioni e difetti tali da aver compromesso questo automatismo. In ogni caso, noi dobbiamo considerare che per passare al suono successivo, come l'organo cambia canna (e il chitarrista e il violinista e il pianista cambiano dito) anche nella fisiologia vocale umana gli apparati dovranno modificarsi di quel poco che sarà necessario all'adattamento. Ma questo cambiamento il più delle volte è frenato o condizionato dall'istinto e dalle sensazioni soggettive, per cui non si lascia avvenire fluidamente il passaggio ma: o lo si trattiene o lo si spinge, spesso anche a causa del blocco laringeo che ognuno tende un po' a fare. Come si può ottenere questo "cambio di canna" (o di corda, o di dito, o come meglio preferite) nella voce umana senza far leva su muscoli o cartilagini, ecc? Con la peculiarità della voce, cioè la pronuncia (che io definisco "art.1 comma 1", cioè il motore fondamentale della nostra educazione vocale). Se vogliamo emettere una scaletta ad es. di tre U (do-re-mi-re-do), noi dovremo emettere assolutamente e "maniacalmente" 5 U, vale a dire che dovremo ARTICOLARE le vocali badando innanzitutto che si tratti realmente di quelle vocali, e non false o simili tipo O strette, e in secondo luogo che ognuna sia pronunciata con sicurezza e precisione al momento giusto; in altre parole, dobbiamo badare che tra la prima e la seconda vocale non ci siano "buchi", ma non ci sia nemmeno una "spinta" del primo suono verso o dentro il secondo. Così come il chitarrista per fare un fa sulla prima corda deve mettere il dito sul primo tasto e non girare il pirolo per tirare la corda, o il pianista cambiare il dito e portare il peso sul secondo dito liberando il primo, e l'aria dell'organo della prima canna passare alla seconda, l'uomo può compiere questo "prodigio" semplicemente (ma non facilmente) pronunciando ogni vocale con determinazione e correttezza. Al resto pensa il nostro organismo che è già predisposto per realizzare il giusto (anche l'intonazione magicamente risulterà perfetta). Contrariamente a quanto si può pensare a prima vista, questa iperarticolazione non produrrà un effetto di suoni separati, ma il più bel legato possibile.

I "segreti" del belcanto

Insegnare il canto non sarebbe così difficile se chi lo insegna avesse cognizione delle cause che determinano i difetti; viceversa la maggior parte di essi si accontenta di applicare o studiare tecniche che consentano di aggirare o far sembrare eliminati i sintomi, cioè i difetti stessi, ma non è mai così. E' come se vedendo una macchia sulla pelle noi ci accontentassimo di stenderle sopra un po' di fondotinta, senza esaminare e andare a capire le motivazioni della sua comparsa. Per un po' tutto sembrerà a posto, e in qualche caso potrebbe anche non succedere più niente, ma in altri casi la macchia riapparirà e si aggraverà. Analogamente nel canto molti giovani sembrano cantar bene, a orecchie non educate, ma fatalmente dopo qualche anno subentrano le difficoltà, la decadenza e la fine prematura.

Ho letto in questi giorni interventi di persone che dall'alto di carriere o nomi altisonanti, ma in verità assai modesti, sputano sulla didattica del canto azzeccagarbugliando di "prendere un po' da tutti", e superficialità simili. Comprendo benissimo che quanti hanno avuto delusioni possano essere indotti alla sfiducia e a far di tutt'erba un fascio, ma questo è un atteggiamento mediocre. Anche io quando conobbi il M° Antonietti ero in un momento negativo, pessimistico, ed ebbi dubbi a iniziare un percorso con lui, ma questo fu di aiuto, perché quando mi resi conto della sua bravura non potevo assegnare quella fiducia ad altre cause. Ma un cantante già affermato che fa simili dichiarazioni è squallido e dovrebbe tacere. Per non parlare di mediocri cantanti che hanno solo il merito di portare un cognome importante fare dichiarazioni su spirito e materia che denotano solo una totale assenza di capacità cognitive. Parlano per aver letto libri o articoli. In Arte nessuno può permettersi di parlare e fare dichiarazioni solo per aver letto libri o sentito dischi o insomma ritenendo di aver assimilato in via teorica dei concetti, o anche dopo un modesto, limitato, percorso tecnico. O la si è conquistata, e allora si sa di cosa si parla, oppure no, allora è meglio far domande e porre quesiti, invece di dare risposte senza fondamento.

sabato, ottobre 22, 2011

"Dans la lenteur..."

Diceva il M° Celibidache:
Dans la lenteur il y a la richesse:
nella lentezza c'è la ricchezza. Intendeva qualcosa di diverso da quanto sto per enunciare, ma il titolo si attaglia perché c'è un proposito analogo, cioè quello di far emergere quanto c'è di importante in atteggiamenti semplici ma capaci di stimolare pensieri.
Dunque, noi sappiamo essere il parlato un'attività automatica dell'uomo. Da bambini impariamo a parlare semplicemente ascoltando; non c'è bisogno di imparare a muovere la bocca e il suo interno in un determinato modo. Il cervello, ricevendo impulsi sonori e volendoli riprodurre come necessità comunicativa, inviando informazioni agli apparati vocali è in grado di riprodurli con quegli adattamenti personali che saranno le caratteristiche timbriche e caratteriali di quel soggetto. Naturalmente il discorso potrebbe farsi complesso se entrassimo nella dinamica dei motivi per cui c'è chi parla più o meno bene, ma lasciamo questo discorso ad altro post. Quando noi parliamo il nostro strumento vocale funziona perfettamente in relazione al suo scopo. Quante possono essere le informazioni che la mente deve mandare alla mandibola, alle labbra, alla lingua, al faringe, ai muscoli respiratori, per far sì che noi riusciamo a esprimerci adeguatamente? milioni, se pensiamo a persone che per indole propria o per professione fanno un uso continuativo della parola. Eppure... chi ci pensa? Qualcuno ha mai pensato a quanto debba muoversi la mandibola ogni volta che si passa da una I a una A?, o a quanti movimenti debbano fare la labbra quando diciamo termini ricchi di U o e O? Senza contare a tutte le "esplosioni" le microapnee, ecc. ecc. che la lingua e le labbra devono esplicare per tutte le consonanti presenti nelle nostre parole. Eppure tutto ciò avviene senza problemi, a parte chi i problemi può averli, ma questo è un discorso che ci riguarda solo di sfuggita. Ma si può fare un esperimento che può già far riflettere: provate a dire una frase qualunque, la prima che vi passa per la testa o l'ultima che avete pronunciato, poi ripetetela, ma molto molto lentamente. Ecco che qualcosa avviene: la spontaneità che contraddistingue il parlato fluido e "naturale", sparisce. Improvvisamente vi rendete conto che esiste la mandibola, esistono le labbra, esiste la lingua, e non è raro che nel fare questo, vi rendiate anche conto che certe parole o sillabe o singole vocali o consonanti avete difficoltà a emetterle correttamente, o che non sapete proprio come atteggiare l'apparato articolatorio per dire correttamente una certa vocale o un certo fonema. Cosa è capitato in quel rallentamento? Che la laringe ha dovuto mantenere più a lungo i suoni vocalici, dunque si è entrati in una dimensione "canora": il fiato deve impegnarsi di più per mantenere più a lungo le vocali, di conseguenza le forme o spazi orofaringei, e soprattutto la bocca, è portata ad aprirsi maggiormente per accogliere quel fiato; ci si rende conto, allora, che ogni vocale vuole un certo funzionamento a cui non siamo soliti prestare attenzione perché, tanto, va da sé. Questo procedimento, nella sua semplicità, implica già una presa di coscienza importante, che chiunque può mettere in pratica, e che, anzi, occorrerebbe diffondere e sviluppare a livello educativo generalizzato, cioè nelle scuole, nei cori, ecc. Meglio ancora se nel fare questo "giochetto" ci fosse una videocamera, o semplicemente uno specchio. Ricordate che lo specchio è il maestro n° 2!

giovedì, ottobre 20, 2011

La Natura non è "scema"

A quanti si ostinano a pensare che la voce ideale dovrebbe suonare "in maschera", intendendo come maschera la zona oculo nasale, occorre far presente che la Natura non è proprio sprovveduta e testarda, e nel corso del tempo in ogni specie vivente ha operato modifiche, di grande e piccola entità, per adattarla alle nuove esigenze di vita e relazione con l'ambiente in cui è inserita. La stessa laringe e gli apparati fono-respiratori hanno compiuto, dall'epoca dei primi ominidi, cambiamenti di rilievo. Dunque, se fosse vero che il suono ideale trova la sua migliore collocazione tra occhi e naso, noi oggi la bocca l'avremmo lì!! Il fatto è, ma pochi se ne rendono conto, che se la bocca si trovasse in una posizione diversa, e soprattutto più alta, noi avremmo problemi enormi non solo a cantare, che risulterebbe impossibile, ma persino a parlare, perché la curvatura che compie il flusso aereo rispetto l'asse della trachea, è fondamentale per assicurare le condizioni di appoggio del fiato sul diaframma. Diversamente questa caratteristica essenziale del canto non potrebbe verificarsi e la voce non avrebbe l'energia sufficiente a produrre suoni di un qualche significato. Mi auguro che la Natura non prenda per buona la posizione del suono di tanti cantanti odierni e non produca cambiamenti nelle prossime generazioni: non vorrei che ai nostri nipoti si aprisse la bocca nella nuca!!!!!!

mercoledì, ottobre 19, 2011

Della syntonia

Ritengo il termine "sintonia" molto opportuno e conciso nel chiarire un concetto che reputo fondamentale, cioè il mettere in relazione perfetta e univoca gli apparati che sottendono una eccellente vocalità, cioè apparato respiratorio, strumento (laringe) e apparato articolatorio-amplificante (oro-faringeo). Quel che mi è saltato all'occhio a una prima indagine è che questo termine pare ormai riservato a radio e tv o apparecchi analoghi; è stato quindi un po' laborioso trovare informazioni più complete e trasferibili. Ho trovato quasi sempre indicazioni limitate, ma ho potuto però fare una sintesi tra diverse fonti. Una definizione che mi ha colpito, che parte da aspetti radioelettrici, è "apparecchi che oscillano alla stessa frequenza". Se con apparecchi intendiamo anche apparati (succedeva nell'800), la frase si attaglia alla perfezione con il nostro intendimento, infatti il fiato, una volta entrato in vibrazione dopo aver azionato le corde vocali, provoca l'oscillazione anche delle pareti faringee, se si trovano in una condizione di rilassatezza che lo permetta. Pertanto il fiato diventa il trait d'union dei diversi apparati e ne assicura, se ben educato, l'accordo, la concordanza, che sono sinonimi.
Se sintonizzare deriva da sintonia, resto un po' perplesso, invece, sull'etimologia che ho rinvenuto in internet, che è "tensione-con"; posso interpretare in modo favorevole, non dando al termine "tensione" l'accezione negativa legata alla muscolatura, cogliendo il fatto che gli organi o apparati restino tra loro tesi insieme, ovvero collegati, ma trovo sollievo nell'etimologia riportata dallo Zingarelli che riporta: "accordo insieme". In effetti il termine "Syn-tonia" porta proprio il termine "tono", che è anche relativo alla musica, quindi perfettamente coerente con il nostro discorso. Inoltre mi piace pensare a termini simili, come "simpatizzare", che è quanto mai appropriato non solo alla vibrazione simultanea di forme e "ance" ad opera del fiato, ma anche alla comunicazione all'uditorio e a "sintesi" che in fondo è lo stesso discorso, cioè "riduzione all'unità di più idee o concetti o sim." (da Synthenai, porre insieme).
Nel fare queste riflessioni mi è venuto invece un collegamento curioso e interessante. Nel leggere di sintonizzazione relativa agli apparecchi radio elettrici, ho colto un altro tipo di analogia, e cioè riprendendo il discorso dell'indipendenza della pronuncia "avanti", trovo che la sintonizzazione degli apparati funzioni perfettamente se il "segnale" alla pronuncia esterna avviene analogamente ad un impulso radio, cioè non meccanicamente ma mediante un impulso invisibile e privo di forza, puramente mentale.

Il soffio indipendente

Ascoltate su youtube la Sigrid Onegin in "Printemps qui commence" dal Sansone e Dalila di Saint Saens, (https://www.youtube.com/watch?v=DSE3VYCBot4) perché si presta all'esemplificazione pratica di un concetto molto importante. Quando un cantante sale di tonalità, specie se diminuisce di intensità, quasi sempre "gli va dietro" con la muscolatura (e col pensiero), e provoca spoggio, chiusura della gola, ecc. Per contrasto spesso, anche su suggerimento dell'insegnante, preme sulla laringe o "tiene" il suono con i muscoli faringei, creando quell'ancoraggio del suono in gola che è l'antibelcanto per eccellenza. Dunque se ascoltate la Onegin, vi accorgerete che quando porta un suono verso l'alto, anche in piano o diminuendo (anzi, questi sono i momenti più esaltanti) la "punta" del soffio sonoro è del tutto indipendente dalla gola, dal diaframma e da ogni altro meccanismo, cioè avviene quel distacco del "fuoco" del suono dal corpo, che è la conquista del canto aereo, che si espande libero nell'ambiente. Quando la Onegin produce questi salti, con o senza portamenti (e col portamento è ancora più difficile) la sensazione immediata è che il suono resti "fisso", e invece dopo una frazione di secondo sentiamo la liberazione di uno spettro sonoro ricco e piacevolissimo, la vibrazione pura del suono (e non del diaframma!). Riguardando l'immagine che ho postato qualche giorno fa dove si vede la testa in sezione con la O esterna, badate che quel suono appena fuori della bocca non è né spinto né fabbricato, ma sta lì quasi galleggiante, INDIPENDENTE, come fosse appeso o fluttuante. E' una sensazione inimmaginabile finché non lo si riesce a produrre, però ascoltando questo esempio mi auguro che la mente possa ottenere un giusto stimolo.

martedì, ottobre 18, 2011

Sigrid Onegin

Volendo indicare alcuni cantanti di riferimento che possano essere di esempio, grazie alle indicazioni di Francesco N., cito ora il contralto Sigrid Onegin di cui inserisco un'esecuzione tratta da Youtube. Molte altre ce ne sono e consiglio i lettori di andarle a sentire. Quest'aria, tratta dal Profeta di Meyerbeer, mi pare che esemplifichi compiutamente molte caratteristiche positive e peculiari di questa cantante e di un'epoca. Intanto è stupefacente sentire una cantante, che se pure ammettessimo non essere un puro contralto ma comunque un mezzosoprano di ampia estensione, passare con questa disinvoltura dal registro di petto, che non è mai "pompato", mai volgare, mai spinto, schiacciato o ingolato, al falsetto-testa. Tutto il settore acuto è dichiaratamente femminile. Non si capisce perché un mezzosoprano o pur anche un contralto debbano sembrare maschi! (o... orchi!). Partendo da questa concezione più che corretta, ecco che la Onegin ci fa sentire note di rara purezza, agilità perlacee ma anche funamboliche sempre con levità, con rotondità (tranne qualche sporadico e minimo episodio che non ritengo il caso di sottolineare, anche e sempre per questioni legate ai tempi di registrazione - 1929) e bellezza. Ciò che mi piace sottolineare è che quando questa cantante sale in zona acuta, anche molto acuta, non si ha mai la sensazione di quel "cucchiaiamento", cioè quel "girare" il suono dietro, andando a cercare cavità e risonanze. Il suono è sempre avanti, ma mai schiacciato o povero. Certo per le orecchie di chi si è abituato ad ascoltare cantanti perennemente ingolati, fibrosi, attaccati ai muscoli, affondanti o nasaleggianti o cos'altro si vuole, sentire una voce pura e aerea come questa potrà sembrare poca cosa, ma chi sa cogliere sentirà che questa è una voce di ampia portata, ricchissima di armonici, quindi certamente molto espansiva nell'ambiente. Il trillo, poi, è un gioiello da collezione.

domenica, ottobre 16, 2011

Chi siamo, da dove veniamo e dove andiamo, ...

No, non sono intenzionato, in questo momento, a fare riflessioni più o meno filosofiche su questo argomento, che risulterebbe peraltro del tutto pertinente con l'argomento che stiamo trattando, o meglio, per come lo stiamo trattando. Dopo centinaia di post, forse troppi, un lavoro che assolutamente non avrei immaginato di svolgere quando avviai questo blog per la pura utilità di conservare una serie di interventi che avevo fatto in un forum e che mi spiaceva perdere, ritengo di dover fare un punto di sosta per quanti entrano per la prima volta. Mi rendo conto, infatti, che chi entra legge ciò che vede in prima pagina, e si fa una certa idea. Questa "certa" idea non sarà né giusta né sbagliata ma semplicemente incompleta. In particolare avendo dedicato diversi interventi a posture e forme chiave della bocca, si può essere ragionevolmente convinti che l'approccio didattico di questa scuola sia di tipo meccanicistico e localistico, la qual cosa è lontana anni luce da ogni nostro intendimento. Chi entra in questo blog senza saper niente di me, di questa scuola o del m° Antonietti, non si deve soffermare alle apparenze. Per noi l'apprendimento del canto è un'Arte che si basa sulla semplicità, una semplicità così spudorata che risulta inimmaginabile per ogni mente, quindi va conquistata, ma per la conquista occorre una disciplina che ha dell'incredibile, in quanto va in conflitto con i due "programmi" mentali più potenti di ogni essere umano: l'istinto di conservazione, perpetuazione e difesa della specie umana da un lato, e il narcisismo, l'ego dall'altra. Entrare nel blog, leggere qua e là e giudicare, è già un fallimento per chiunque pretenda di avere un riscontro artistico dalla voce, perché ha già ceduto le armi al proprio ego, che si ritiene sempre invincibile, sempre nel giusto. Dunque attenzione alla superficialità: la semplicità NON E' facilità!!! Chi la fa facile ha sbagliato strada, perché l'Arte non è e non potrà mai essere "facile", perché contrasta nettamente con l'istinto che vuole solo ciò che è utile ed indispensabile alla sopravvivenza materiale e contrasta tutto il resto, specie, poi, se va in conflitto, come nel caso del canto, con aspetti e funzioni fisiologiche. Dunque la prima cosa è l'umiltà, che non significa essere "mollaccioni", ma significa che di fronte al gesto artistico ci si deve sempre rapportare con un atteggiamento costruttivo e proiettante. Ogni dubbio è un "buco", dunque occorre mettersi nella condizione di appianarlo, chiedendo e informandosi; in questa scuola si parte, e si deve partire, col senso (cioè la direzione) di appianare, risolvere, tutti i dubbi, conquistando la perfezione possibile all'uomo. L'umiltà non vuol dire abbassare le pretese, ma porsi nella condizione di creare la coscienza del perfetto, la padronanza del gesto che si vuole elevare ad Arte. Chi leggiucchia qua e là questi post, chi guarda i video e poi parla e giudica, ha già reso palese la propria insufficienza conoscitiva rispetto all'argomento: non solo non può aver capito niente, ma non si è nemmeno messo nelle condizione per poter capire. Dunque invito tutti quanti, prima di esprimere alcunché, a leggere sicuramente almeno la prima decina di post iniziali, quelli del 2006, che trattano gli aspetti essenziali e basilari di questa disciplina, ma per serietà ritengo che si debba leggere tutto! In secondo luogo invito coloro che vogliono veramente avere un approccio approfondito con questa disciplina, a pormi interrogativi rispetto a quanto ritiene errato, incomprensibile, ecc. A quel punto, se non sarà rimasto soddisfatto, avrà piena autorità ad esprimere le perplessità o i giudizi negativi nei confronti di quanto, fondatamente, avrà valutato non rispondenti a criteri di chiarezza, completezza, fondatezza di basi artistiche e scientifiche. Chiedo scusa se a qualcuno il tono può risultare polemico, non è mia intenzione, però ci tengo a precisare i punti fermi di questa scuola, che non nasce dall'oggi al domani, che non è "ferma" a concetti vecchi o superati, ecc., ma, nella sua saldezza a riferimenti anche di tipo storico, è sempre volta al confronto e al dialogo con quanti si occupano della materia per renderla sempre adeguata ai tempi, vale a dire non idealizzandola come una disciplina "nostalgica". L'Arte è di tutti i tempi, se la si sa conquistare, quindi in essa è il tempo che le è proprio, che è diverso dal tempo fisico, per cui è in questo tempo che ognuno potrà riconoscere chi è, da dove viene e dove va ...

sabato, ottobre 15, 2011

Giuseppe De Luca

Ho scoperto in questi giorni casualmente questo video del grande baritono Giuseppe De Luca nel 1927. E' solo un peccato che "arrangi" a modo suo la parte musicale (un po' anche il testo), perché per il resto è commovente per quanto la parola diventi musica, oltreché un canto sbalorditivo per legato, scorrevolezza, facilità. Direi che è una delle prove più alte di canto di un baritono che mi sia capitato di sentire, e consideriamo che qui il cantante non era per niente giovane, e si vede anche nella parte scenica, che non è proprio il massimo...
"

Ps: Su Youtube esiste un filmato con l'intera cavatina: http://www.youtube.com/watch?v=AcVnXW0DWJs&feature=related ma sia la qualità video che audio è orrenda, per cui non la inserisco. Esiste inoltre la versione registrata in studio nel 1907. E' singolare che 20 anni prima ometta tutti i sol acuti, meno l'ultimo che esegue perfettamente in entrambe le versioni, mentre in quella video, ne esegue alcuni, seppur "toccata e fuga"; presumo che la I gli risultasse più facile. Risulta altrettanto stupefacente che pasticci orribilmente col testo e la musica in tutte le versioni, però è interessante notare quanto la voce sia rimasta pressoché immutata.

giovedì, ottobre 13, 2011

Il tubo lungo

Da un commento di Salvo, prendo spunto per una riflessione. In parte è contenuta nelle premesse (fin dai post del 2006), ma trattando di pronuncia giova un approfondimento. Prima cosa, ricordiamo gli aspetti fondamentali che riguardano il "tubo". La corrente d'aria espirata, dopo i polmoni, attraversa un tubo, formato dalla trachea, prima, e dal faringe poi, per terminare sulle labbra. Questo tubo può essere spezzato, e istintivamente lo è sempre, nel senso che si articola in (almeno) due tratti: dal diaframma alla glottide e dalla glottide alla bocca, oppure in un tratto unico, cioè dal diaframma alla bocca. Quest'ultima situazione è rarissima e sottende un'educazione respiratoria privilegiata da una disciplina artistica, che è appunto l'intendimento della nostra scuola. La differenza credo sia molto evidente: un tubo unico "svincola", libera la laringe da ogni interferenza, permettendole di assumere volta per volta la posizione ideale per realizzare il suono che vogliamo o di cui abbiamo bisogno. Per questo ogni sia pur minimo intendimento di movimento volontario della laringe è da considerarsi nefasto, perché immediatamente abbiamo il "tubo spezzato", cioè non possiamo raggiungere quella situazione ideale di un unico flusso aereo libero. Qual è il rovescio della medaglia? Anche questo è abbastanza semplice da intuire (ma l'intuizione era dei nostri bisnonni, non del mondo attuale, che contando tutto sulla scienza, non si vuole più sforzare a proiettarsi nelle ipotesi...): allungandosi il tubo, il peso aumenta considerevolmente, perché l'aria pesa, soprattutto se parliamo di aria "compressa", come è quella vibrante di un suono. In questo senso dobbiamo anche considerare, come giustamente suggerisce Salvo, che anche pochi millimetri in più o in meno possono modificare il peso, per cui una U, che "spara" le labbra in fuori, considerando anche la postura della bocca nella sua totalità, provoca aumento di peso (e di colore) da considerare. Il peso è la forza che l'aria esercita sulle pareti polmonari, con vari tipi di conseguenze, da sole o abbinate: abbassamento del diaframma, avanzamento e risalita delle costole, espansione della gabbia toracica, avanzamento della parete addominale, ecc. Questo peso non è ben tollerato dall'istinto, che lo considera un'interferenza indebita e anche una più o meno velata minaccia alla sopravvivenza, e quindi reagisce. La reazione è in rapporto con la "minaccia", cioè, più il peso sarà grande, più forte la reazione; la reazione può essere tollerabile, cioè controllabile, oppure andare oltre le possibilità di controllo. L'istinto, inoltre, ha in sé un margine di tolleranza, vale a dire che insistendo col peso piano piano cederà, e reagirà meno, salvo riprendersi tutto il concesso al venir meno di una costante esercitazione. E' il tipico percorso sportivo, che riguarda anche la maggior parte dei cantanti, che non avendo acquisito una vocalità, o per meglio dire un imposto, di tipo artistico, ma di tipo tecnico, cioè avendo guadagnato la voce mediante la forza, vanno incontro a decadimento quando il fisico inizia a perdere tonicità, cioè tra i 40 e i 50 anni, e l'istinto può riprendersi ciò che ritiene "maltolto". Dunque se da un lato occorre comunque abituare, allenare, il fisico (e più precisamente il diaframma) a sopportare il peso vocale, dall'altro dobbiamo creare le condizioni per disciplinare il corpo stesso, cioè metterlo nelle condizioni di non accogliere il suono come una interferenza, come un oggetto da sopportare, ma riceverlo come una "nuova esigenza vitale", da includere tra le funzioni di cui è artefice.

mercoledì, ottobre 12, 2011

Le forme "chiave": 6) la U

Sulla U si potrebbe scrivere un trattato a sé stante. E' infatti una vocale che interessa sia le scuole del belcanto che quelle di tendenza verista, anche se con differenze. La U è la vocale più scura del nostro sistema vocalico e deve il suo colore sia alla ampiezza verticale della cavità oro-faringea che alla posizione della laringe che scendendo nell'ipofaringe provoca la compressione delle corde vocali che aumentano in modo consistente lo spessore. Per questo motivo la U è preferita da molti insegnanti perché evita la risalita di laringe e diaframma. Per contro è una vocale con un "peso" non indifferente, e questo non è affatto ben tollerato dall'instinto, che può reagire con bruschi sollevamenti del diaframma, per cui se da un lato è la vocale che consente di salire, dal'altro può anche limitare l'ascesa. Infatti è bene ricordarsi che, specie nei primi tempi, occorrerà, dopo le prime note oltre il passaggio, cercare nuovamente di schiarire il timbro, onde permettere alla laringe di ritrovare la posizione ideale per l'esecuzione dei suoni acuti. Come s'è detto, quindi, la U è la vocale ideale per l'educazione delle note di falsetto, specie nella zona del passaggio. Quando un allievo incontra difficoltà ad emettere la U su note centro acute è il segno di una organizzazione respiratoria carente, e non c'è altro mezzo che insistere, ovviamente senza forzare, in attesa che la richiesta, stimolando l'esigenza, permetta lo sviluppo. E' abbastanza incredibile che un metodo vada a insistere, quindi ad amplificare, qualcosa che avviene già naturalmente; se la U induce la laringe a scendere nel condotto faringeo, perché alcuni "affondisti" inducono a "premere" ulteriormente su di essa muscolarmente? Il motivo sta nelle righe sopra: siccome il peso consistente provoca la reazione del diaframma, impedendo con ogni mezzo il suo sollevamento inibiscono lo "spoggio". Purtroppo non si comprende che se il nostro organismo si ribella, non è molto saggio provocare con la forza quel risultato che si può ottenere, col tempo, in modo ben più salutare e quindi qualitativo. Quando si avverte la reazione non c'è altra strada che scendere di tono, riposarsi e riprovare, poi di nuovo e di nuovo. Col tempo l'istinto cederà (ovviamente anche esercitando con altri tipi di esercizi), ma soprattutto la respirazione si svilupperà, e concederà ciò che in un primo momento è prematuro chiedere. Potremmo dire che la U non ha passaggio, in quanto l'ispessimento della corda rende quasi insensibile il cambio, ed è anche per questo che è in assoluto la vocale principe nell'educazione al passaggio di registro. In particolare è molto utile nel cambio con la O (mai larga). Salendo con la O e impostando U sulla nota di passaggio o le successive, si avrà coscienza del tipo di impegno che richiede. Questa vocale è anche perfetta per educare il fiato nel falsettino, e nel falsetto leggero delle donne. La forma chiave della U è quella del "fischio" (fig.).
e l'idea, specie quando si inizia lo studio, dev'essere quella di "soffiarla" via lontano dalla bocca, ma senza forza, come fosse una piuma. Il falsettino leggero è sempre consigliabilissimo; non ci stancheremo mai di ripetere che è alla basa della voce: è il seme da cui si svilupperà la grande quercia. Anche le donne, che devono ben appropriarsi del falsetto nella sua forma pura nella gamma fa3-do#4, possono iniziare con una U piccola e purissima, passando successivamente al parlato e/o sillabato. Le U sugli acuti sono invece piuttosto ostiche da acquisire, e non bisogna aver fretta, perché esse richiedono la capacità di un canto "aperto-coperto", cioè che non abbia quella tinta oscura che rischia di annerire tutto, ma riesca a espandersi esternamente con la stessa leggerezza delle altre vocali. La U è anche una vocale eccellente per apprendere il picchettato, o agilità, pur ricordando che oltre il fa4 tenderà, nelle donne, a provocare l'apertura della bocca, la qual cosa non deve essere impedita, anche se occorre sempre il controllo che l'attacco del suono non perda la sua collocazione anteriore.

lunedì, ottobre 10, 2011

Intermezzo: le "intervocali"

Da sempre, nel corso delle lezioni, qualcuno pone la domanda: ma queste sono le vocali "italiane", non si dovrebbero studiare anche quelle straniere? A questo proposito dobbiamo dire che i suoni che l'uomo emette per scopi comunicativi sono pressoché infiniti. Se noi prendiamo lingue come l'arabo, quelle orientali e quelle africane, credo che lo spettro di sonorità copra, insieme a quelle occidentali, l'intera gamma delle possibilità espressive dell'uomo. Limitandoci alle vocali più usate nelle lingue europee, comunque, le sfumature sono davvero tante, senza contare, ad esempio, le differenze tra l'inglese e l'americano, cioè le locali. Del resto è noto che anche solo in Italia il modo di dire certe vocali tra nord, sud, est e ovest può cambiare sensibilmente, anche se si pone come riferimento il toscano. Ma ad esempio anche il tedesco di Germania e quello austriaco hanno differenze, e il discorso potrebbe farsi lungo. Allora la scuola italiana del bel canto, basa la sua didattica sull'italiano, ma anche sulla fortuna che nella nostra lingua le vocali "pure" sono quelle che richiedono l'atteggiamento orofaringeo più estremo. Non c'è una vocale che richieda più ampiezza della A, così come la I è in assoluto la vocale più chiara e la U quella più scura. Possiamo però dire che la E è già una vocale di "passaggio" tra A ed I, mentre la O è un passaggio tra A e U, ed è un esercizio molto interessante quello di realizzare un passaggio lentissimo e graduale tra tutte le vocali: é - i - è - a - o - u. Quando lo si esegue correttamente, è facile e illuminante percepire tutte le sfumature di colore e dizione tra una vocale e l'altra, che vengono originate dalla lenta ma graduale modificazione delle forme. Altro discorso è quello che viene fatto da molte scuole di canto, che inducono gli alunni a svolgere esercizi unicamente con le "intervocali" (ricordo che Rodolfo Celletti, noto vociologo non cantante, scriveva in un certo periodo - perché comunque andava a periodi - che l'insegnamento del canto si doveva basare sulle intervocali. Non gli ho mai chiesto come coniugava questa affermazione con la sua infinita ammirazione per Tito Schipa, che aveva le A che più A non si può!!). Questo è a nostro avviso un abominio, ben lontano da qualunque principio belcantistico e educativo. Diverso infatti è dire: esercitiamo anche le intervocali, che possono essere utili nel canto non italiano, un conto è esercitarsi unicamente con quelle. Con quale scopo, poi? Ma certo, la questione è semplice: siccome nel parlato comune è abbastanza frequente sentire che molte vocali, come la A e la E, vengono pronunciate molto male, cioè sgarbatamente, volgarmente, con aperture e accentazioni molto sguaiate, la soluzione, secondo loro, sarebbe quella di "arrotondarle". Questo è un pensiero profondamente sbagliato, è come fare un compromesso, ma con un problema alla base: non saper risolvere la corretta pronuncia delle vocali. Se infatti la A, mettiamo, si presenta sguaiata, sbracata, eccessivamente aperta, non si risolve facendo un suono "misto", che non è né carne né pesce (e che è la tipica soluzione che si prospetta nelle formazioni corali, ma lì ci può essere la scusante che non c'è il tempo e non ci sono le condizioni per affrontare e risolvere la questione), ma ponendosi il problema del perché avviene ciò e studiando le strategie risolutorie opportune, sempreché non ci sia già qualche scuola che l'ha superata (!). Come si era già scritto qualche decina, se non centinaia, di post fa, la questione è, tanto per cambiare, legata al fiato. Si tratta, in questo caso, di un fiato insufficiente, soprattutto nella qualità, a riempire la forma oppure di un fiato eccessivamente compresso in una forma piccola. Il mio personale consiglio orientante è quello di fuggire dagli insegnanti che basano la propria didattica sull'uso esclusivo o privilegiato delle "intervocali".